Controcultura

«La mancanza di etica non è mai perdonata: è l'unico motivo che provoca la crisi»

Intervista a Riccardo Scandellari, esperto di personal branding. "Queste persone vivono della loro reputazione e della fiducia del pubblico. Se viene meno, le aziende scappano. Ma per chi si gestisce bene il futuro è roseo"

«La mancanza di etica non è mai perdonata: è l'unico motivo che provoca la crisi»

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«La mancanza di etica non è mai perdonata: è l'unico motivo che provoca la crisi»

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L'industria degli influencer è in continua crescita, ma quando un influencer, al contrario, entra in crisi? E come sarà il futuro del settore? Ne parliamo con Riccardo Scandellari, fondatore del blog di marketing skande.com, docente di personal branding e autore di vari testi sul tema, fra cui La scimmia nel cassetto, appena edito da Hoepli.

Riccardo Scandellari, quando entra in crisi un influencer?

«Un influencer entra in crisi soprattutto, o quasi esclusivamente, quando c'è una caduta di etica e questa caduta si palesa. Non accade mai per un errore di comunicazione: qualcuno ha definito così la vicenda Ferragni, ma un errore di comunicazione si perdona sempre...».

Che cosa non si perdona?

«Quando manca l'etica, questo nome antico... In quel caso non si perdona mai: se dico di fare una cosa e poi ne faccio un'altra, quella è una mancanza di etica, ed è palese».

Perché è così decisiva?

«Un influencer è un comunicatore, una media company: vive di reputazione, di fiducia e delle aspettative nei suoi confronti da parte del pubblico; se viene meno questa reputazione, perde la capacità di promuovere. Nel caso della Ferragni, come in altri, il problema è stato questo; e, quando viene meno la fiducia, le aziende scappano, stracciano i contratti...».

La crisi come si materializza?

«Un influencer di medio livello, in Italia, guadagna molto, anche 20mila euro per un contenuto, il che significa milioni in un anno. Sono persone con una visibilità enorme. Poi esistono i micro e mini influencer, magari seguiti da mille persone, che però si fidano».

Esiste un numero minimo di follower per essere un influencer?

«Dipende dal tipo di azienda che approcci. Le cosiddette big company, che pagano anche 20mila euro per uno spot in tv, vogliono qualcuno che abbia un numero di follower dal milione in su. Una piccola azienda, come un negozio o una pizzeria, potrebbe invece preferire un influencer locale, magari con 20/30mila follower, che guadagna mille euro. Poi la crisi è anche perdita di efficacia online».

Come si misura?

«Attraverso il numero di clic, di vendite, di visite. Puoi avere 500mila follower, ma se la promozione ottiene 30 clic... Vuol dire che c'è qualche problema nell'attivare le persone del seguito; oppure sono stati comprati commenti, follower e like finti».

L'influencer è un lavoro?

«Certo. Ed è un lavoro faticosissimo. Uno youtuber lavora anche dodici o tredici ore al giorno per realizzare un video di 15/20 minuti. E questo provoca spesso un esaurimento: è un forte stress creare un prodotto del genere ogni giorno, oltre al fatto che gli influencer sono sottoposti a un feedback continuo, a schiere di hater e persone che fanno loro notare gli errori... Si lavora tanto».

La crisi è frequente?

«No. Quando accade, finisce sui giornali. Alcuni piuttosto finiscono nell'oblio, magari perché si sono stancati, o sono arrivati altri influencer più efficaci e, quindi, hanno perso follower e portata dei contenuti».

Che cosa vede nel futuro per gli influencer?

«Credo che il loro mercato sia destinato a crescere ancora di più, perché queste persone sono diventate degli accentratori di attenzione, anche superiore a quella ottenuta dai quotidiani o dalle riviste di settore. Hanno più pubblico e credibilità del magazine, considerato freddo: le persone si fidano delle persone. E poi gli influencer parlano anche male di un prodotto che provano, proprio per mantenere questa credibilità. Cosa che altri media non fanno».

Però sono pagati per parlarne.

«Sì, ma nel contratto c'è scritto che possono parlarne come vogliono. E le aziende rischiano lo stesso, perché il problema oggi non è la promozione, bensì l'indifferenza: il fatto che non ti conoscano è peggio delle critiche...».

Che rapporto c'è fra Intelligenza artificiale e influencer?

«L'Ia ha provocato il problema del content choc: anche quelli che non sono capaci di creare contenuti, ora possono farlo. E poi li pubblicano, creando un rumore di fondo tutto uguale, che danneggia chi produce contenuti di qualità».

E quindi?

«Gli influencer hanno una grande capacità: è un problema di fiducia, non di contenuto. Bisogna concentrarsi su quella. Il contenuto è replicabile, la fiducia no».

Vede un futuro roseo?

«Molto, per chi si gestisce bene. Le aziende non sanno più come fare pubblicità ma, se un messaggio viene passato da una persona che gode della fiducia del pubblico, funziona. L'influencer funziona. Quando pubblicano un video, quelli che hanno 2 o 3 milioni di follower hanno la portata di un programma tv in prima serata, e con un pubblico non generalizzato, bensì perfetto per quel singolo target.

Quindi sì, penso che il futuro degli influencer sia molto roseo».

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