Il famoso Argan, ovvero LArte moderna 1770-1970, su cui generazioni di liceali hanno studiato la storia dellarte, dedica al Futurismo sei pagine sulle settecentosettanta del volume. Nellindice, tra le centinaia di voci (quali lArt Nouveau, i Nabis, lEspressionismo, il Blaue Reiter, lAvanguardia russa, Dada, il Surrealismo, la Metafisica, Novecento, lEcole de Paris ecc.) quella sul Futurismo non cè nemmeno, e per trovarla dobbiamo cercare allinterno della voce «Pittura e Scultura», paragrafo del capitolo sesto, Lepoca del funzionalismo. E per fortuna che il testo relativo al futurismo inizia così: «Il Futurismo italiano è stato il primo movimento davanguardia». Forse, data laffermazione, un po di spazio in più non sarebbe nuociuto.
Ma quello dellArgan è solo un esempio nel mare magnum del masochismo storiografico della critica italiana del secondo dopoguerra, in merito al Futurismo. Il teorema era che i futuristi erano tutti fascisti, quindi non valeva parlarne. Su questo argomento, e su queste pagine, ho già scritto nel febbraio del 2004, ponendo in luce la polifonia ideologica nelle file del Futurismo, che vedeva anche molti comunisti, socialisti ed anarchici. Ma tantè: questo atteggiamento ha prodotto alla lunga guasti che solo ora si cominciano a capire nella loro ampiezza. Vedi i moltissimi capolavori di Boccioni, Balla, Carrà, Severini e Russolo, che se ne sono andati allestero mentre noi eravamo intenti alle scomuniche. Così anche la storiografia per anni ne ha risentito, e ci si salvava proprio per quellafflato francese, quel vezzo tutto marinettiano di lanciare il manifesto proprio a Parigi, nel cuore e nel gotha dellarte. Si diceva che fu per cautelarsi, ché, altrimenti, se avesse pubblicato il manifesto prima in Italia, Oltralpe se ne sarebbero appropriati facendolo loro: Le Futurisme. Sentite comè più chic, e meno fasciste! E via di questo passo, in tutti i libri di storia dellarte, ma anche in quelli dedicati solo al Futurismo, e poi nei saggi che introducono i cataloghi di mostre sul Futurismo, si legge che il Futurismo fu lanciato a Parigi con un manifesto pubblicato su Le Figaro il 20 febbraio 1909. Voila! Sdoganati dai francesi.
Purtroppo però, questaffermazione categorica non è esatta. E in vista del centenario del Futurismo credo sarebbe ora di pensare in che giorno, esattamente, dovrà essere stappata la bottiglia di spumante italiano per celebrare la ricorrenza. Non è sciovinismo. Festeggiare con champagne sarebbe unoffesa a Marinetti che voleva risollevare le sorti dellItalietta di allora, rivalutandone artisti, poeti, prodotti e capitani dindustria.
E dunque, come ci conferma la dottissima bibliografia di Filippo Tommaso Marinetti a cura di Domenico Cammarota (che evidentemente nessuno ha consultato), quella di Parigi non è la prima pubblicazione del manifesto, ma (per quanto ne sappiamo a tuttoggi) la decima, comprendendo due volantini con varianti di testo e pochissima diffusione. Limitandoci alla stampa periodica, quella che va definita come editio princeps uscì sulla Gazzetta dellEmilia, a Bologna, il 5 febbraio 1909 (quindi ben quindici giorni prima), seguita a ruota da Il Pungolo di Napoli, il 6 febbraio, dalla Gazzetta di Mantova il 9 febbraio, e quindi dallArena di Verona il 9-10 febbraio, dal Piccolo di Trieste del 10 febbraio, e ancora a Napoli sia sul numero 6 della Tavola rotonda del 14 febbraio, sia sul Giorno del 16 febbraio. Inoltre, e paradossalmente, prima ancora che a Parigi, il manifesto uscì persino in Romania, su Democratia, pubblicata a Craiova il 16 febbraio 1909.
A questo punto, credo che se si vorrà degnamente ricordare un movimento che ha rinnovato tutta larte moderna, non solo quella italiana, e al quale gran parte delle avanguardie del 900 sono debitrici, bisognerà riscrivere la storia dei suoi esordi.
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