Roma - Il collegato alla Finanziaria che assorbirà il protocollo su welfare e pensioni deve ancora essere varato dal governo, e già la maggioranza si spacca profondamente. Il protocollo del 23 luglio è «immodificabile», come sostengono Rutelli, Dini, Emma Bonino? Oppure, come affermano il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero e i parlamentari di Rifondazione, Pdci e Verdi, «non è un testo sacro»? Per tentare di dirimere il litigio deve intervenire Romano Prodi in tivù: «Il protocollo è stato firmato dalle forze sociali, e così rimane. Approveremo il collegato il 12 novembre».
In linea teorica, il governo avrebbe dovuto varare il collegato insieme con la Finanziaria. Ma non ha potuto: troppe le differenze fra la sinistra radicale, che vuole scardinare la legge Biagi, e l’ala riformista. In mezzo alle salve di «fuoco amico» Romano Prodi e il suo ministro del Lavoro, Cesare Damiano, hanno rinviato il varo del testo al 12 ottobre. Il motivo è chiaro. Il 10 si tiene il referendum fra lavoratori e pensionati sul protocollo del 23 luglio, e il «sì» ampiamente previsto nelle fabbriche, nonostante l’opposizione dei metalmeccanici della Fiom-Cgil, dovrebbe rafforzare chi si oppone alle pretese di Ferrero e soci: se gli interessati approvano il protocollo, perché la politica dovrebbe intromettersi?
Eppure la battaglia è scoppiata feroce, a Finanziaria ancora calda di fotocopiatrice. Da un lato, Lamberto Dini avverte: «Se il rinvio del protocollo sul welfare prelude a un suo svuotamento, non potremo garantire i nostri voti alla manovra di bilancio». Conferma il vicepremier Francesco Rutelli: «Il protocollo è intoccabile». Dall’altro lato, quello dell’estrema sinistra, Ferrero ribatte: «Il protocollo non si può blindare. Bisogna migliorare quell’accordo». Con il ministro di Rifondazione si schierano Fausto Bertinotti e l’ala sinistra della maggioranza. Per il presidente della Camera, «la partita welfare è ancora aperta, e si può lavorare per una soluzione che accontenti tutti, lavoratori e pensionati; bisogna combattere la precarietà». Rifondazione, comunisti italiani e verdi gridano «basta coi ricatti». Ma le parole di Ferrero vengono giudicate «irricevibili» dal ministro del Commercio estero, Emma Bonino. I radicali annunciano che non voteranno la Finanziaria se le due partite (pensioni, con il superamento dello «scalone», e mercato del lavoro) verranno separate.
È infatti questo l’obiettivo della sinistra di lotta e di governo. Non potendo correre il rischio di scavallare il 31 dicembre, perché altrimenti entra in vigore lo «scalone Maroni» - cioè il pensionamento a sessant’anni - Ferrero e i suoi alleati vogliono scindere il protocollo in due parti: la parte pensioni verrebbe approvata con la Finanziaria; la parte mercato del lavoro verrebbe rinviata, e incomincerebbe una lunga guerra di logoramento. Una prospettiva devastante per Prodi, che pensava di aver chiuso l’estenuante capitolo con la firma del 23 luglio.
La domanda-chiave è: la sinistra andrà avanti anche se nel referendum prevarranno i «sì» al protocollo? Prodi e Damiano si aggrappano alle capacità di organizzare il consenso da parte di Cgil, Cisl, Uil. «Il governo è impegnato a tradurre il protocollo in norme di legge, mantenendone l’unitarietà e l’integrità, senza spezzettamenti», afferma Damiano, aggiungendo che la rotta da mantenere è quella di «una applicazione che corrisponda ai contenuti negoziati con le parti sociali, le uniche che possono cambiarli». Certo, il ministro del Lavoro ammette che «il Parlamento è sovrano», ma le modifiche in questo caso potrebbero «far saltare l’equilibrio sociale che il protocollo ha realizzato. Io - conclude - confido nel referendum di Cgil, Cisl e Uil, che porterà al voto milioni di lavoratori e pensionati», e il cui risultato dovrebbe essere rispettato.
Il centrodestra assiste preoccupato al nuovo scontro nella maggioranza. «Le parole di Bertinotti e Ferrero smentiscono clamorosamente Prodi, che aveva attribuito a motivi tecnici il rinvio del protocollo», osserva il capogruppo di An al Senato, Altero Matteoli.
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