Non so se Diego Armando Maradona abbia cinquant'anni. Dicono che li compia oggi. So che a Napoli ci sarà festa grandiosa, secondo usi e costumi, tra un sacchetto d'immondizia e una molotov. So che a Buenos Aires e a Lanus i fuochi accenderanno il cielo della sera. So che amici, sodali, complici, approfittatori, paguri si uniranno in girotondo per il Campione. Nessuno può dire il contrario: Diego Armando è stato un Campione, un fuoriclasse, un assoluto fenomeno di calciatore, dopo Pelè, durante tantissimi altri, prima di qualunque altro.
Maradona è stato ed è anche la cara triste del suo Paese, è il tango, è il casquè, è la gioia esaltata, è la depressione drammatica, è la struggente melodia del bandoneon di Piazzolla, è il birignao di Soriano, è il pianto melodrammatico a centrocampo, è la smorfia della lingua che appena fuoriesce dalla bocca ad accompagnare la finta con l'anca, con gli occhi, con un semplice respiro. Maradona ha vissuto illudendo e illudendosi, ha regalato le magie di un tocco, di un dribbling, di un pallonetto, si è fregato con le sue stesse mani, de Dios, con l'alcol e la cocaina, le traiettorie avvelenate e velenose, come i suoi calci di punizione o di rigore, segnali quelli, non questi ultimi, della sua fragilità, in fondo di un certo candore che l'ha trascinato, coinvolto, travolto. Maradona fuma un sigaro cubano, abbraccia Fidel, flirta con Lula, è tutti e nessuno, è Evita, è Peron, è las Malvinas. Amava Kirchner: l’Argentina in questi giorni l’ha visto sulla tomba del suo amico Nestor e ha cominciato a bisbigliare sogni di presidenza. Dicono li alimenti lui stesso. Si immagina un giorno alla Casa Rosada e così fanno anche molti argentini che ieri sono entrati nel sito maradonapresidente.com e hanno fatto fare il record di contatti. Diego capo del popolo lo è già stato, lo è, e lo sarà. L’idea piace a lui e agli altri, perché la droga non è solo una polvere bianca, ma anche un isteria collettiva che entra in circuito nel popolo.
La sua vita di calciatore è stato maestosa, in Spagna, in Italia, nella terra di origine ma, insieme, la sua esistenza è stata messa all'angolo, colpita al bersaglio grosso, lo ha messo in ginocchio, steso al tappeto, si è rialzato, ha provato a camminare laddove era stato grandioso, il campo di football, stavolta da allenatore. In Sudafrica abbiamo visto un fantoccio, una caricatura, patetica, buffa, grottesca, meroliana, la soluzione magica non è arrivata, Dio gli ha voltato le spalle, la grande illusione sua, del suo Paese, della gente che lo adora, erano in ventimila ad aspettarlo all'aeroporto dopo la batosta tedesca in Sudafrica. «Que la chupan», succhiatevelo!, fu il suo palese, volgare invito ai giornalisti e ai critici argentini prima del torneo delle vuvuzelas. Diego Armando si è ciucciato lui una fetta di vita che sarebbe stata, invece, tale e quale le sue partite magiche, i suoi gol, il titolo mondiale, altro, tutto quello che ha saputo regalare in vent'anni di football. Narciso e superbo, fanciullo e macho, resta il punto di riferimento di un'epoca, di una Nazione, l'Argentina, di una città, non Buenos Aires ma Napoli, un vesuvio fatto ragazzo, con la testa ricciuta, il corpo sensuale, idolo abbagliante e abbagliato, mai distaccato, di profilo o in controluce. Questa la leggenda, questo il mito, zero dubbi. Se così non fosse stato non avremmo visto il ragazzo di Villa Fiorito. Se si fosse allenato sempre, se avesse vissuto come certi suoi colleghi, forse, direi sicuramente, avrebbe smarrito, se non addirittura perso, la sua fresca genialità, la sua selvaggia immediatezza.
Oggi potrei però chiedermi se Diego Armando Maradona non abbia gettato via i petali del suo fiore, bruciati dalla superbia, dall'ignoranza, dalla sua stessa forza prepotente, uno tsunami che non ha fatto vittima se non lui medesimo.
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