In marcia su Palazzo Chigi "Sì alla caserma di Vicenza"

Vicenza - L’ultimo fronte del pacifismo arcobaleno è una pista militare piccola e corta, aperta ai voli civili ma priva di collegamenti regolari, senza nemmeno un bar (solo distributori automatici) e dove si parcheggia gratis, una cuccagna. L’aeroporto è intitolato al maresciallo pilota Tomaso Dal Molin e ora è il detonatore di una miscela che potrebbe fare esplodere i contrasti tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi. Su parte della base hanno messo gli occhi gli americani, che vogliono riunificare la 173ª Brigata paracadutisti ora divisa tra la Germania e la caserma Ederle, periferia est di Vicenza. Espandere la base attuale è impossibile e il Dal Molin è un’area demaniale distante pochi chilometri che si poteva ottenere senza espropri.

Un paio di anni fa furono avviati i colloqui con il governo in carica. L’allora ministro della Difesa, Antonio Martino, garantì un accordo di massima. E gli americani si fidarono di un Paese amico, membro della Nato, che dovrebbe avere una parola sola. Avviarono la progettazione, calcolarono gli investimenti, rifiutarono il corteggiamento dei tedeschi che oggi farebbero ponti d’oro alle truppe a stelle e strisce. La firma nero su bianco non c’è, doveva arrivare nei mesi scorsi ma le elezioni italiane hanno rallentato tutto. Così hanno preso corpo i comitati di contestazione. Sembrava una protesta destinata a non uscire dai confini veneti, una questione che il nuovo governo avrebbe risolto in poche settimane. Ma il ministro Arturo Parisi ha preso tempo e Romano Prodi ha traccheggiato. Segnali che La sinistra radicale ha interpretato come sintomi di incertezza, un varco in cui incunearsi. «Siamo contro la trasformazione dell’economia vicentina in economia di guerra - scrivono i comitati “No Dal Molin” - a servizio delle strategie militari dell’attuale governo Usa, a cui invece siamo fieramente contrari». Ecco il nemico: l’attuale governo Usa. «Il progetto per una nuova base di Vicenza, città già molto militarizzata, si prefigura come la costruzione di un accampamento di guerra e non ha nulla di difensivo», ha detto Andrea Licata, del Centro studi e ricerche per la pace dell’università di Trieste. Il fronte antimilitarista coagula partiti politici (Rifondazione, Verdi, Comunisti italiani), sindacati (Cgil) e movimenti no global, dai disobbedienti di Canarini a Radio Sherwood, che ha messo a disposizione telefoni e mail per raccogliere le proteste. Cortei e fiaccolate sono quasi quotidiani: l’ultimo è stato domenica, il prossimo stasera.

Si denuncia l’inquinamento, il traffico, l’urbanistica stravolta; si evoca lo spettro di nuovi Cermis, si dipinge la città del Palladio come futuro bersaglio dei terroristi. Sono stati invocati referendum impossibili. Si è detto che il valore delle case attorno all’attuale base è crollato. Si sostiene che è giusto rinunciare all’«economia bellica» e che «i lavoratori della caserma Ederle dovrebbero organizzarsi in modo indipendente dai loro padroni americani». Sono circa 750 i dipendenti civili, cui va aggiunto un altro migliaio di persone che lavorano nei servizi (supermercati, negozi, imprese di manutenzione, eccetera). Circa duemila persone che senza l’espansione al Dal Molin rischiano il posto.«Una città ricca come Vicenza non avrà problemi a riassorbirli», ha detto il ministro Massimo D’Alema. «Non ci aspettavamo di essere trattati così dal governo», ribatte Leonardo Oliviero, uno dei battaglieri animatori del Comitato per il sì alla nuova base. «Gli americani hanno necessità di riunire la brigata, se non lo fanno in Italia lo faranno in Germania. Chiuderemo noi della Ederle e la base di Livorno, dove lavorano altre 500 persone, e anche Aviano sarà ridimensionata. Dal punto di vista militare,l’ampliamento non avrà conseguenze perché saranno soltanto costruiti dormitori per i circa 2.000 militari con servizi commerciali, sportivi e logistici. Niente armi, missili, cannoni o carri armati, che non ci sono neppure alla Ederle. Sulla pista del Dal Molin, che all’aviazione Usa non interessa, proseguirebbe l’attuale attività: i soldati vicentini continuerebbero a decollare per le missioni dalla base di Aviano. Una parte delle infrastrutture da realizzare, come nuove strade e opere di urbanizzazione, sarebbero pagate dagli americani. Non chiedono contributi né al Comune né allo Stato e sono disponibili a modificare il progetto. Noi non abbiamo né mobilità né cassa integrazione.

Oltre la metà dei dipendenti ha superato i 40 anni, un’età in cui non è facile riciclarsi».Domani una delegazione di dipendenti manifesterà a Roma davanti a Montecitorio. «Abbiamo chiesto di essere ricevuti dal governo - dice Oliviero -, finora nessuna risposta certa».

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