Marco Missiroli: «Giovane sì, Holden proprio no»

«Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore». Il buio addosso (Guanda, pagg. 250, euro 15) di Marco Missiroli si apre con un’epigrafe di William Faulkner, in cui è racchiuso il senso di tutte le pagine che seguono. La storia è quella della zoppa di R., paese dell’Alta Provenza in cui i nati deformi sono destinati a soppressione grazie alla «polvere dolce», che addormenta la disgrazia con la prima poppata. La zoppa di R. è speciale due volte: perché salvata da morte certa e perché davvero diversa da tutti. Il «buio addosso» è il suo dolore ancestrale per lo sguardo del mondo: un abbraccio oscuro, da favola nera.
Missiroli ha soltanto 26 anni, ma è già al suo secondo romanzo. Con il primo, Senza coda (Fanucci, pagg. 192, euro 11,50), una storia di mafia vista con lo sguardo di un ragazzino, ha incantato i giurati del «Campiello Giovani» 2006, che lo hanno premiato per l’opera prima. Sembra un esordiente diverso, che non frequenta stereotipi e scrive con il cuore. Sembra. Eppure, risulta che a vent’anni ha frequentato la Holden.
Missiroli, lei è l’ennesimo prodotto di una scuola di scrittura?
«Proprio per niente. Dalla Holden sono uscito con le ossa rotte e con la voglia di non scrivere mai più. Mi avevano convinto che la narrazione è geometria e non cuore. Ci ero entrato per capire se ero pessimo come sentivo e ho patito perché tutti mi sembravano più bravi di me. Dei miei compagni di corso, invece, nessuno ha poi fatto lo scrittore».
Insomma alla Holden non ha imparato niente?
«Hanno la pretesa di insegnarti cose che non si possono insegnare. Ero già uno scrittore e la Holden non mi avrebbe mai reso uno scrittore migliore. Quando sei lì dentro apprendi bene soltanto una cosa: le fredde dinamiche dell’ambiente editoriale».
E che ambiente sarebbe?
«Una macchina da guerra, dove i meccanismi sono creati apposta per verificare se riesci a produrre cose che venderanno. Lo sgambetto morale per me è stata una spinta e ho scritto Senza coda, fregandomene di tutto».
E magari l’ha spedito alla cieca agli editori, senza appoggi dalla Holden.
«Dieci editori. Per posta. Seicento euro di spesa. Hanno risposto in quattro».
Aveva ventidue anni. Mai pensato: non avrò troppo poco vissuto per scrivere un romanzo?
«Se pensi così sei fottuto. Vuol dire che ti stai costruendo. Chi esordisce a sedici anni non è un enfant prodige: era solo il suo momento».
Almeno un tratto in comune con altri esordienti però ce l’ha: anche lei è un secondolavorista.
«Ho fatto il conto: per vivere di sola scrittura bisogna vendere almeno centomila copie a titolo. Centomila copie, centomila euro. Venticinquemila li metti da parte e con gli altri ci campi tre anni. Se vendi di meno, ti giochi il tempo di incubazione. E se vivi di scrittura, lei diventa il vizio maledetto per cui devi creare per vivere. Così faccio anche il caporedattore di una rivista».
E se la scrittura poi diventerà una seconda scelta?
«Come allevare pesci? Impossibile.

Questa è una scelta di vita mastodontica che corteggio da quando avevo quindici anni. Faccio una fatica boia, sudo come un dannato, mi vengono le ansie, ma sai che goduria? Insomma, dolce e salato. Cracker e nutella. Anzi no, burro e acciughe: ecco la metafora che mi si addice».

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