Politica

La Margherita divora i Ds: il Pd si sveglia democristiano

Alle amministrative trionfano i "bianchi" Renzi e Delbono Sconfitti gli ex Pci. Nel partito il malessere è sempre più forte

Flavio Zanonato, sindaco di Padova rieletto, andrebbe chiuso in una bacheca e conservato per la memoria dei posteri. Il sindaco «rosso» più amato dalla destra è rimasto uno degli ultimi esponenti della vecchia guardia della sinistra a concorrere e vincere in queste elezioni amministrative. Non è riuscita l’impresa a Filippo Penati, presidente della provincia elogiato da Giuliano Ferrara, che viene anche lui dalla sinistra. Franceschini fa bene ad essere soddisfatto. Nella battaglia interna al Pd agli esponenti dei Ds sono toccate solo le gatte da pelare. I bocconi più grossi se li è presi l’ex Margherita. A Firenze è diventato sindaco un giovane democristiano, Matteo Renzi, che nelle primarie aveva abbattuto i concorrenti della nomenklatura ex comunista. A Bologna ha prevalso Flavio Delbono, professore che ha consolidato la presa sulla città dell'ex premier Romano Prodi. A Taranto il presidente uscente, riconfermato, è Giovanni Florido che viene dalla Cisl. A Rieti si è affermato Fabio Melilli, anche lui di scuola dc, che Franceschini ha voluto nella segreteria del Partito democratico. A Forlì è stato eletto un indipendente, Roberto Balzani. A Foggia Giovanni Mongelli, ciellino e uomo di Confindustria, è diventato sindaco. Il riequilibrio a favore del centrodestra nella mappa delle amministrazioni locali si accompagna a un riequilibrio a favore dei cattolici e indipendenti, spesso di area Margherita, fra presidenti di provincia e sindaci rimasti al Pd.
Nessuno può negare questo successo di Franceschini. La «democristianizzazione» del Pd procede come un rullo compressore. Negli incarichi di rilievo di piazza del Nazareno sono gli ex Margherita a farla da padroni. Fioroni, la cui stella sembrava oscurarsi dopo la caduta di Veltroni, continua a fare l’uomo forte pronto a rintuzzare ogni tentativo dalemiano di rialzare la testa. Mi ha detto una funzionaria del Pd con voce accorata: «Vengo da una famiglia di destra. Ho combattuto una vita per affermare il mio diritto di essere di sinistra. Ora mi trovo a lavorare in un partito in cui comandano i democristiani». Il malessere degli ex diessini è palpabile. Non se ne accorge solo Piero Fassino che, forte del suo patto con Franceschini, spera di diventare presidente del partito dopo il congresso e ha messo all’organizzazione il suo uomo, Maurizio Migliavacca, a dare la luce verde ad ogni prepotenza dei vecchi democristiani.
I Ds stanno lentamente sparendo. D’Alema aveva parlato del Pd come di un «amalgama malriuscito». In verità per quelli della Margherita l’amalgama è riuscito benissimo. Così come è stato un successo per tutti gli outsider che hanno trasformato in un proprio trampolino di lancio, la «vocazione suicidaria» del vecchio partito della sinistra. È il caso di Michele Emiliano che dopo aver strappato a D’Alema cinque anni fa la nomination e dopo essersi giovato in queste elezioni dell’alleanza con l’Udc propiziata dall’ex premier, ora è diventato il padrone assoluto del Pd pugliese e non nasconde ambizioni nazionali.
Come è potuto accadere che Prodi, Rutelli e Franceschini spingessero nel giro di un anno il partito più forte della sinistra in un vicolo cieco? Se si pensa che ai primi vagiti del Pd molti temevano che i vecchi Ds fagocitassero i nuovi compagni di partito, il risultato è strabiliante. La verità è che non c’è mai stata alcuna elaborazione originale sulla necessità di dar vita al Pd. Gli ex diessini erano insoddisfatti della mancata crescita elettorale del proprio partito e sono sempre stati convinti, soprattutto dopo la breve prova di D’Alema a Palazzo Chigi, che per la traversata nel deserto servisse un timoniere con un’altra casacca. Di qui l’idea di mettere assieme le due debolezze, Ds e Margherita, con la convinzione, neppure tanto segreta, che alla fine la macchina diessina avrebbe travolto gli alleati. La macchina, invece, aveva perso i pezzi migliori ed aveva le batterie scariche. Poi ci si era messo Veltroni a disegnare il volto di un partito senza radicamento che aveva spinto sull’orlo dell’inutilizzabilità tutte le risorse umane e organizzative della vecchia sinistra. Cosi dopo aver rifiutato per un quindicennio la via maestra del revisionismo classico, gli ex comunisti si sono arresi al revisionismo organizzativo dei loro alleati che li hanno liquidati con una presa del potere rapida, completa e non violenta.
La candidatura di Pierluigi Bersani nasce proprio da questa sensazione di malessere della vecchia base ex comunista. La retorica sul partito nuovo, sul partito che non può essere la somma di ex, lascia spazio al brutale calcolo sul dare e avere. E gli ex ds hanno dato molto, praticamente tutto, e avuto poco. Si capisce anche da qui la tenacia degli amministratori del vecchio partito nel tutelare il patrimonio immobiliare affidandolo a fondazioni guidate da funzionari fedeli pur di non consegnarlo alla nuova nomenklatura «democristianizzata».
Lo scontro Franceschini-Bersani rischia di riprodurre questa spaccatura fra i nuovi vincitori e la vecchia classe dirigente spossessata. Franceschini corre il rischio di trovarsi di fronte al muro degli ex diessini. Bersani quello opposto di capeggiare la rivolta tardiva dei suoi vecchi compagni di partito. A questo probabilmente pensa Sergio Chiamparino quando lancia l’appello a non celebrare il congresso per la fine di ottobre rinviandolo di un anno. Molti ex diessini, ansiosi di riequilibrare l’assetto del ponte di comando, temono che prorogare Franceschini significa dargli tempo di consolidare la «democristianizzazione» completa del Pd.

Nessuno vuole fare la fine di Filippo Penati che piange la sua gloriosa sconfitta, mentre gli ex Margherita festeggiano con i voti presi «a gratis» e senza troppa fatica nel serbatoio della sinistra.

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