La Margherita si fa in tre per scomparire

La Margherita si fa in tre per scomparire

La corsa alla segretaria del Partito democratico è avviata, i big superstiti sfuggiti alle regolette arcigne poste a protezione della kermesse si sono ridotti a tre. E tutti, com’era chiaro fin dall’inizio e alla faccia della società civile invocata come protagonista della nascita di un partito tutto nuovo, provenienti dalle nomenklature della Quercia e della Margherita. Esclusi dunque i «corsari», le irruzioni estemporanee e mediatiche di Pannella e di Pietro, fallita l’irruzione di Furio Colombo che non è riuscito a raccogliere tra girotondini e tricoteuse le firme necessarie, resta in campo un terzetto che occuperà la scena di qui al 14 ottobre e oltre. Walter Veltroni si avvia a una vittoria che è incerta solo quanto alle proporzioni anche perché, malgrado lo scioglimento celebrato alcuni mesi fa al congresso di Firenze fra lacrime e addii, i Ds restano ancorati all’antico dogma dell’unità quale valore politico primario. Nella Margherita, al contrario, e dinanzi alla marcia trionfale e solitaria di Veltroni, sono emerse spinte e inquietudini che hanno prodotto altre candidature, quella di Rosy Bindi e di Enrico Letta, ispirate dal tentativo di evitare una marcia solitaria al sindaco di Roma. Che almeno, come ha sintetizzato la Bindi, si possa dire che «è stato eletto, e non incoronato».
Il risultato per ora è che i voti della Margherita si divideranno in tre rivoli, che si spera di trasformare in torrentelli: una parte andranno a Franceschini e dunque a Veltroni del quale è il secondo, una parte alla Bindi e l’altra a Enrico Letta. Ambedue le candidature della Margherita sono state accolte con aperto favore da Arturo Parisi, capo e ideologo dei prodiani, e in silenzio da Prodi che però conta di ottenere dai due outsider, un contenimento del successo di Veltroni. Enrico Letta si rivolge alle generazioni più giovani, ai trenta-quarantenni fin qui esclusi dal gioco politico, e a un’opinione pubblica, a un ceto medio di sinistra moderata che diffida delle ambiguità, e delle polivalenze, di Veltroni. La Bindi conta sul voto dei cattolici della Margherita, e sul fatto di essere l’unica donna a scendere in campo. Sia Rosy Bindi sia Enrico Letta si muovono comunque, per il momento, in un clima di ortodossia prodiana. Ed è alquanto paradossale che il più deciso oppositore o almeno il più critico nei confronti dell’attuale forma di governo, Francesco Rutelli col suo «Manifesto dei coraggiosi» sia schierato almeno dichiaratamente con Veltroni, come del resto il côté ufficiale della Margherita. Fin qui, la definizione più convincente del Pd quale uscirà dalla fase costituente resta quella di Ugo Intini sul «compromesso storico bonsai». Molto bonsai, in effetti. Quando negli anni ’70 si dette vita, coi governi di solidarietà nazionale, a una sorta di prodromo al compromesso storico, era la Dc a tenere saldo il timone e Berlinguer, dopo due anni di un appoggio gratuito che aveva scatenato contro di lui la sinistra estrema e violenta, dovette tornare «al di qua del guado», come ebbe a confessare Gerardo Chiaromonte. Il compromesso storico di oggi non è solo bonsai, è anche rovesciato. I Ds non avranno solo la segreteria del partito, hanno conservato una loro struttura organizzata, conterà la loro presenza massiccia sul territorio, una presenza preponderante fatta di professionisti della politica nelle istituzioni, nel sindacato, nelle Coop, nelle tante «casematte della cultura» gramsciane conquistate dopo decenni di assedio. Nei giorni scorsi il quotidiano della Margherita Europa pubblicava un editoriale dal titolo «Margherita, il partito non c’è più». Parlava della sede di via del Nazareno a Roma ormai abbandonata, ciascuno per sé, e cercava di sostenere che non era una fine triste il partito nuovo a questo doveva portare, a «mescolare le sue culture». Si realizza insomma la triste profezia di Gerardo Bianco: «Finiremo a far parte dell’ennesimo capitolo della storia del post-comunismo italiano».
a.

gismondi@tin.it

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