Mario Cervi

Poi, verso le sei di sera, dava un'occhiata pro forma all'orologio da polso, e puntualmente chiamava l'autista al telefono per avvertirlo che era tempo di andare

Mario Cervi

Poi, verso le sei di sera, dava un'occhiata pro forma all'orologio da polso, e puntualmente chiamava l'autista al telefono per avvertirlo che era tempo di andare. Anche l'altro orologio, quello biologico, funzionava benissimo: aveva terminato il nobile part time ad personam che scandiva la sua vita, lo aspettavano a casa. Con largo anticipo sulla tabella di marcia, diciamo fra le cinque e mezzo e le cinque, ti aveva consegnato il pezzo che gli era stato chiesto non prima dell'una o delle due, una volta depositatisi sulle scrivanie di noi redattori, graduati oppure ordinari, i barocchi cascami della riunione mattutina. Un lancio d'agenzia; lo spunto per un commento; l'idea per un «canto e controcanto» in gergo chiamati «bibì e bibò», alias opinioni a confronto: queste tenui tracce, queste ipotesi aspiranti al ruolo di tesi, sotto le sue dita, anzi, il suo dito, l'indice destro (il sinistro si occupava solo delle maiuscole), diventavano sceneggiature a tutto tondo, quadri storici, inviti all'approfondimento. «Ecco il Cervi», annunciavi ai colleghi. E poi ti mettevi a passarlo. Erano simpatici, quei refusi dadaisti distribuiti a pioggia. Simpatici e utili: toglierli uno a uno faceva apprezzare meglio la forza dello scritto. Una forza pacata che non mostrava mai i muscoli dell'attacco e dell'invettiva, bensì l'acutezza del ragionamento e della memoria. «Avrei fatto questo titolo. Che ne pensi, Direttore?». «Sì, direi che può andare». Da lui, nell'ufficio a tre piazze che divideva con Massimo (Bertarelli) ed Ariel (Feltri), andavi a fumare una sigaretta lontano da nasi indiscreti. «Allora, ti pareva andasse bene?». Era la domanda con cui lui introduceva i titoli di coda della sua giornata al Giornale, un breve scambio di battute che spesso erano proprio battute da film, sapide o affettuose, su questo o quel personaggio, questo o quel politico di ieri e di oggi. Titoli di coda luminosi e cristallini come le code delle comete.

Era il «visto si stampi» ufficioso, ma, per qualche imperscrutabile ragione, indispensabile alla buona riuscita di una pagina. «Lettere per la Stanza, ne hai?», gli chiedevi accompagnandolo all'ascensore. Ne aveva, ne aveva ancora.

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