«Mario Soldati, l’amico che mi ha reso immortale»

«Mario Soldati, l’amico che mi ha reso immortale»

Era il 19 giugno 1999, quando è mancato Mario Soldati. Sono trascorsi undici anni dalla scomparsa di colui che è stato un grande scrittore, regista, giornalista. La sua figura penso che sia rimasta viva nel ricordo delle persone che lo hanno conosciuto e che gli hanno voluto bene. Per cui come ebbi modo di scrivere in passato in circostanze come quelle attuali, è difficile dimenticare una persona che ha lasciato nella tua vita un segno profondo di amicizia, stima e affetto. E ancora di più difficile se questa persona, per me ha il nome di Mario Soldati. Allora il ricordo rimane cementificato, granitico, tanto forte che diventa impossibile collocarlo nell’oblio.
Così come ero solito fare nei venticinque anni che mi tennero legato a lui da una grande amicizia, da lui definita, come scrisse nel Il vero Silvestri «...La fiducia reciproca l’uno nell’altro senza domande e senza offerte, senza riconoscenza e senza possesso, senza servitù, senza gelosia, concludendo cosa è dunque l’amicizia se non la forma più alta dell’amore?». Quante e quante volte in questi anni ho avuto modo con la mente di rivisitare Tellaro, rivedere la sua casa aspra e incontaminata, posta tra i lecci e la macchia mediterranea, con gli ulivi ai margini degli scogli e del mare, e con la vista sull’isola del Tino e della Palmaria. Quella che lui definiva «L’alta, aguzza isola del Tino» formidabile parete di roccia bianca e grigia verso il mare, aperto verso il Golfo dei Poeti, e tutto un bosco folto di più in rigido pendio.
Lungo uno spigolo la roccia sale fino in cima al candido cilindro del faro e scende con uno sperone di scogli fino allo stretto che la divide dalla vicina Palmaria, con la scogliera dagli strapiombi ciclopici, le profonde grotte, l’estremo incavo delle insenature, dalla quali sgorgano ruscellando sui massi, sorgenti perenni di acqua dolce.
E per me un rivivere di intense emozioni, come giunto nell’ingresso venivo accolto da un profondo silenzio. Silenzio che era solito appartenere alla sua vita, ogni qualvolta componeva i suoi scritti, i suoi articoli. Silenzio che era di tanto in tanto rotto, come scrisse in un racconto nella «Casa del perché» dalla «mobile lucida superficie marina che si frantumava al riflesso dell’ultimo sole, nella soave sera foriera di ombre autunnali vaste come il golfo: era una tarsia tremolante di infinite lamelle: labili losanghe tutte simili di forma, diverse di estensione e colorate alternativamente di rosa o di celeste secondo se riflettevano la chiara luminosità del Ponente o, dal quadrante opposto lo sfumato profondo azzurro della notte che si approssimava con altri giuochi di luce e colore. Era come una danza delle losanghe. Con la sua misteriosa bellezza, con la dinamica e l’ottica degli spruzzi, delle spume, dei riflessi, delle gocciole, come quando il remo si tuffa, quando si scava nel flutto, una via, quando ne esce, si incanta, precipita. Così come una legge estetica, idraulica, cronometrica e fotometrica».
All’interno del salone rivedo il grande schermo televisivo separato da un tavolo di vaste proporzioni, ingombro di fogli, riviste, libri, che usava per consultare per le sue opere. Era l’angolo in cui tratteneva e riceveva amici, ospiti, conoscenti che gli facevano visita. Sulla sinistra, sugli scaffali a muro aveva disposto le cassette dei suoi film, degli anni Quaranta e Cinquanta, da Malombra, a Piccolo mondo antico, da Eugenia Grandet a La Provinciale, da La mano dello straniero a Policarpo ufficiale di scrittura, così senza uscire dal salone, con l’ascensore salivo al piano superiore, dove aveva il suo angolo di lavoro: in perfetto ordine centinaia di volumi e opere di grandi narratori e pensatori del Settecento, Ottocento e Novecento. Da Pascal a Montaigne, a Hegel a Stevenson, a Dostoevskij a Melville a Tolstoj a Graham Greene a Conrad a Talleyrand a Lawrence continuando con Fogazzaro, D’Annunzio, Pavese.
Conversando degli anni che passavano e con essi della vecchiaia, era solito commentare una frase di Benedetto Croce: «L’uomo saggio sa convivere con il dolore e con l’idea della morte, aggiungendo che non dobbiamo mai pensare a noi stessi come degli esseri immortali, perché in questo caso ci prende una noia terribile».
Curava personalmente il suo studio, nonostante negli ultimi anni i suoi acciacchi, e la sventura di avere perso la sua Jucci, colei della quale, con la voce incrinata, era solito dire: «Ma da quando non c’è la Jucci...». Il loro era un legame profondo indissolubile.
Erano fantastici e unici, uniti assieme un filo che non doveva mai spezzarsi. Era stato un dramma per Mario, un dramma che gli ha tolto il piacere di vivere. Così ricordo e rivedo alle pareti disegni, fotografie, ritratti eseguiti da Carlo Levi, e da Ennio Flaiano, persone che sono state legate a lui da amicizia vera. Tutto in questa grande stanza, al primo piano, nel suo studio, sono certo parla ancora di lui, così come hanno voluto i suoi adorati figli, Michele, Wolfango e Giovanni, così come quando la stessa era frequentata da scrittori, giornalisti e persone di cultura che elencarli sarebbe troppo lungo, ma come si addice ad un grande eccentrico sognatore.
Lentamente con la mente ripercorro l’interno dell’abitazione, guadagno l’uscita, e mi soffermo ad osservare a vivere i tramonti, non è più quasi giorno; mi pare di rivedere Mario... lascio Tellaro riportando ancora in me tanti bellissimi momenti di noi, di un uomo che per me rimane uno dei migliori nel panorama umano, culturale, pubblico, italiano. Un uomo colto, spiritoso, originale, eclettico e geniale. Che fortuna è stata per me averlo conosciuto. Sono questi gli uomini che arricchiscono lo spirito, illuminano la vita, e ne rimangono maestri lasciando una traccia indelebile della loro esistenza.
Mi ritornano alla mente le conversazioni dei pomeriggi trascorsi insieme a lui. E quando, a sera inoltrata, mi chiamava per chiedermi un particolare, una precisazione, un chiarimento su un episodio che mi aveva interessato professionalmente per i suoi «Racconti del maresciallo». Già il maresciallo. Per lui era come la ricerca del padre, esprimeva il nostro bisogno di ritrovare quella figura severa, esemplare, protettiva. Certo, mi diceva, l’ambiente in cui il maresciallo entra in azione è assai mutato in questi anni. Una volta conduceva le indagini in bicicletta, adesso accorre sul luogo del delitto a sirene spiegate. Si serve dell’alta tecnologia e del programmatore elettrico per le indagini e per la classificazione delle prove. Oggi interroga i tecnici di laboratorio più che volentieri dei testimoni, e tutto questo anche se i suoi metodi più sicuri restano le silenziose, illimitate risorse del ragionamento, dell’intuizione e dell’immaginazione. Per lui il maresciallo è stato anche un pretesto per una divagazione, su un personaggio, per la scoperta di un paesaggio, per la rievocazione di un momento lirico.
Anche se sono trascorsi tanti anni dal momento in cui ci ha lasciato, la sua figura è sempre viva in chi gli ha voluto bene.
Alla sua morte in tanti scrissero per ricordarlo, qualcuno però mise anche in dubbio la sua libertà di «uomo libero» dicendo che ai tempi del ventennio fascista, tornato dall’America per vivere, avrebbe preso la tessera del partito fascista. Cosa non vera perché a quei tempi non ha mai avuto legami con nessun partito. Era, ripeto, un uomo libero.
Ricordo che la stampa estesa ha ricordato con affetto il mio amico Mario Soldati. Da parte mia posso solo dire di non averlo mai sentito criticare, giudicare, dire qualcosa di cattivo nei confronti dei suoi colleghi. E questo nonostante già alcuni anni prima della sua morte fosse stato quasi dimenticato dai più. Destino dei grandi.


Mi ritorna alla mente che il figlio Giovanni, dopo la morte del papà, inviò ad amici e giornali questa frase scritta dal padre a Marsiglia: «Amò troppo la pace per credere di meritarla e strenuamente la fuggì. Ora è contento».
*maresciallo,
ispiratore dei Racconti
di Mario Soldati

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