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Maroni, il vincente della linea dura che un giorno disse «no» anche a Bossi

Maroni, il vincente della linea dura che un giorno disse «no» anche a Bossi

Roma Il compito, va detto, è piuttosto ingrato. E difficilmente si ha memoria di un ministro dell’Interno che non si sia portato dietro qualche strascico polemico. Ancor di più se alla guida del Viminale c’è uno che nella Lega ci è cresciuto, predicando e rivendicando le battaglie che in questi anni hanno fatto del Carroccio il partito più vecchio d’Italia. Vecchio e in ottima salute, almeno stando ai sondaggi.
Così, ci sta che negli ultimi mesi un certo scetticismo su Roberto Maroni sia iniziato a circolare, soprattutto dopo che tra Camera e Senato una buona dose di franchi tiratori s’è esibita in più d’una occasione contro il ddl sicurezza. «Lo stanno impallinando», hanno iniziato a sussurrare i teorici del complotto che affollano il Transatlantico. E che qualcuno nella maggioranza volesse dare un segnale alla Lega è fuor di dubbio, tanto che in una occasione Maroni non ha mancato di reagire al fuoco amico alzando decisamente la voce. Salvo poi legarsela al dito, pretendere il voto di fiducia sulle successive votazioni - «a scanso di equivoci» - e portare a casa quello che non solo nel Carroccio ma anche in buona parte della maggioranza non esitano a definire un «risultato storico». Proprio mentre il governo brinda al primo anno di lavoro, infatti, Maroni è riuscito a mettere in pratica quella «linea dura» che predica da tempo con il «respingimento» di tre barconi con 227 clandestini che sono stati riconsegnati alla Libia, Paese da cui erano salpati. «Una svolta storica», esulta il ministro dell’Interno, perché per la prima volta si è affermato il principio di “respingimento” e non quello del rimpatrio».
Malelingue e incidenti di percorso a parte, insomma, alla fine Maroni può incassare il plauso dei leghisti, anche di quelli che già cominciavano a nicchiare. Perché Bobo - così lo chiamano gli amici - con il popolo del Carroccio ha un rapporto per molti versi diverso da quello degli altri colonnelli. Tutti, nessuno escluso, gli riconoscono serietà, capacità, competenza e una spendibilità in televisione che a via Bellerio non ha pari. Qualcuno, però, non dimentica i suoi trascorsi giovanili nel Movimento studentesco, eskimo d’ordinanza, il manifesto sotto il braccio e voto a Democrazia proletaria. Dunque, parte dall’estrema sinistra il futuro due volte ministro dell’Interno. Tanto da trovarsene traccia in un rapporto che l’ambasciata americana di Roma trasmette alla Cia nel 2001: «Ha cominciato a interessarsi di politica alla fine degli anni Sessanta, quando militava in Democrazia proletaria, un movimento rivoluzionario di estrema sinistra. Ha abbandonato gli ideali comunisti nel 1979. Ha capacità di leadership». L’intelligence americana trova interessanti anche i suoi gusti musicali: «È un fan di Bruce Springsteen, suona il sassofono, ha suonato l’organo elettrico in una band di jazz-rock-country a Varese». E che la musica sia una delle passioni predilette di Maroni non è un mistero per nessuno, tanto che ancora oggi che è ministro dell’Interno non rinuncia alle serate con il suo gruppo storico, il Distretto 51.
In verità, a parte la diffidenza di chi in Lega ci è arrivato partendo da destra, le simpatie giovanili per Dp non sono certo state un problema per Bobo. Un po’ perché negli anni si è andato scoprendo che anche Umberto Bossi una tessera del Pci ce l’ha avuta (seppur nel lontano 1975), un po’ perché nel tempo la forza del Carroccio s’è dimostrata essere una certa trasversalità, sia nella sua dirigenza che nel suo elettorato.
Quel che davvero ha pesato, invece, è stata la rottura con il Senatùr alla fine del 1994, quando la Lega decide di togliere il suo appoggio al primo governo Berlusconi. Maroni dissente pubblicamente e tutti quelli che nel Carroccio contestano la linea di Bossi vengono ribattezzati dai giornali «i maroniani». Bobo se ne sente dire di tutti i colori, dalla dirigenza ma pure dall’Umberto che lo accusa di essersi «innamorato del Viminale». È allora, dopo 15 anni di sodalizio, che la loro amicizia vacilla davvero. Con tanto di gogna pubblica al congresso di Milano. «La Lega ce l’ha duro e i maroni ce li ha sotto», recita uno striscione che accompagna la bordata di fischi che copre l’intervento di Maroni.
È su questo episodio che di tanto in tanto ricama chi di Maroni non ama il suo approccio meno coinvolto di altri dirigenti rispetto alla vita del partito. E non c’è dubbio che Bobo non gradisca più di tanto i bagni di folla in salsa padana, che siano alle pendici del Monviso o a Pontida. Ma con un’altra e forse più decisiva certezza, visto che Maroni è l’unico colonnello che pur avendo pubblicamente detto «no» al Capo alla fine è rimasto in sella. Il solo - in una serie infinita di cacciate e defenestrazioni che va avanti da quando esiste la Lega - con cui Bossi abbia ricomposto una frattura.

L’unico della pattuglia dei fondatori, come non manca di ricordare il Senatùr ogni volta che racconta delle loro scorribande per l’autostrada in cerca di cavalcavia da imbrattare a colpi di vernice verde.

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