da Berlino
Il Festival di Berlino ha tanto evocato le persecuzioni compiute dai tedeschi e ora si sente in regola per evocare le persecuzioni compiute dagli altri. Nel 2004 due film indicarono Francia e Cina come complici delle stragi in Uganda; ieri, con La masseria delle allodole dei fratelli Taviani, s'è visto un film - senza i requisiti artistici per essere qui - che però c'è, perché evoca la persecuzione ottomana degli armeni.
Per capire bene come funziona il sistema, occorre premettere qualche chiave del funzionamento dei grossi festival. Per esempio, quando un film diventa il pretesto per un premio alla carriera, quindi è fuori concorso, generalmente è perché vale poco (Inland Empire di Lynch a Venezia); altrimenti il film sarebbe messo in concorso. È il caso della Masseria delle allodole.
Poi scattano talora altri meccanismi promozionali. Che cosa si fa per attirare attenzione benevola su un film, quando si sa che va incontro a stroncature? Si crea il caso. La masseria delle allodole, tratto dal romanzo di Antonia Arslan (Rizzoli), racconta la persecuzione degli armeni nell'Impero ottomano prima e durante la Grande guerra.
Dunque, quale migliore sfondo del Festival in una città che ha più turchi di molte città dell'Anatolia?
Gettate le premesse del caso, alimentarlo è facile. Mentre il Festival di Cannes e la Mostra di Venezia avvengono fra continui controlli e perquisizioni, il Festival di Berlino non prevede né gli uni, né gli altri. Eppure, a leggere la stampa italiana in questi giorni, Berlino pare in stato d'assedio. Pare anche che portinaie e shampiste della Ku'damm parlino da una settimana solo del film dei Taviani! Doveva scoppiare il finimondo, ma non è successo nulla.
Viene in mente l'operazione condotta da Enrico Lucherini, decano degli addetti stampa dei divi, oltre quarant'anni fa. Sophia Loren aveva girato con Vittorio De Sica I sequestrati di Altona, tratto da un dramma di Sartre, «mattone» indicibile sulle colpe proprio della Germania. Davanti ai cinema vuoti del primo giorno, quando in generale erano pieni (1964), Lucherini, armato di pennello e vernice, andò a fare scritte neonaziste sulla villa svizzera della Loren! La stampa di tutto il mondo ne parlò. Per fortuna, quasi nessuno andò comunque a vedere il film.
La Masseria delle allodole non ha nulla dei film che hanno reso giustamente illustre, anche se spesso contestato, il nome dei Taviani. Inquadrature sempre ravvicinate uso tv; doppiaggio alla meno peggio degli attori non italiani (Tchéky Karyo, Moritz Bleibtreu, Angela Molina, André Dussollier, Paz Vega, Arsinée Khanjan) e recitazione enfatica degli altri; provincialismo dei bambini (si sente un «subbito»); sfondi di cartapesta; inverosimiglianze (un ufficiale turco che dirama un ordine per un altro ufficiale turco dal nome tedesco (Egon!). Questi sarebbero pessimi requisiti in ogni circostanza, ma sono micidiali quando si pretende di ricostruire, con tanta disinvoltura, un «genocidio» che i turchi tuttora negano. Comunque, se i prossimi film che si occupano della controversia, avranno la forza drammatica della Masseria delle allodole, l'onore di Enver Pascià - considerato il promotore delle stragi di armeni - sarà al sicuro.
Coproduzione italo-bulgaro-spagnola, La masseria delle allodole ha da una parte l'impronta anonima dei film per tutti fatti per non piacere a nessuno; dall'altra - specie nell'inizio arcadico - evoca il Giardino dei Finzi Contini, che Vittorio De Sica, ormai vecchio, diresse addormentandosi sulla macchina da presa, dopo notti insonni al casinò. Però vinse l'Oscar. Ai fratelli Taviani si può solo fare lo stesso augurio.
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