Matilde, signora di pace e di guerra

L’imperiosa etimologia teutonica rivela in Matilde, Macthild, la donna «possente in battaglia». Più dolce la lettura dei medioevali, che scorgevano nella variante Matelda il palindromo ad letam, «verso la beata», un indizio di santità, di vita eterna. Dante la vede come seducente guida nell’Eden: un transito a Beatrice, alla femminilità paradisiaca.
Due caratteri, il guerriero e il leggiadro, che si armonizzano nella più straordinaria signora del medioevo, cui è intitolato il lavoro di Edgarda Ferri, La Grancontessa. Vita, avventure e misteri di Matilde di Canossa. Una scrittura luminosa tra saggio e romanzo, con vastità descrittive, dialoghi e colpi di scena: una sceneggiatura da film. Poliglotta (il suo efficiente ufficio-stampa, il monaco Donizone, tra le note del poema biografico scrive «ben conosce il linguaggio dei Teutoni e sa anche parlare la garrula lingua dei Franchi», oltre, si capisce, al latino degli evangeliari e della diplomazia, e al volgare dei contratti e degli affari con fittavoli, feudatari, staff delle sue forze armate e delegazioni di sudditi), decisionista come una Condoleezza Rice, immersa nei nodi del mondo in cui la politica è al calor bianco, con i codici in una mano e una spada nell’altra, colomba quando si proclama innamorata della pace e prende il ruolo di mediatrice tra Papato e Impero, ma falco quando una tromba nemica squilla troppo vicina ai suoi castelli, all’oro e al verde delle sue campagne di pianura e d’Appennino, con quei riccioli rosso fuoco, il collo lungo e sottile inghirlandato da una fila di zaffiri, un debole per la porpora dei mantelli, per il capretto morbido dei guanti e degli stivali da cavallerizza di cui faceva collezione, la padrona di Canossa è lo stampo unico della donna in carriera e in leggenda.
Dalla linea paterna, che risaliva ai potentati longobardi, Matilde ereditava il centro dell’Italia, lo splendido scenario dal Garda ai confini del Lazio, in un’epoca in cui i conventi bonificavano boscaglie e aspre scarpate in vigneti e in paradisi agricoli, mentre sui fiumi dall’Adriatico al Tirreno la flottiglia di Canossa trasportava l’argilla da mattoni, per fabbricare fattorie, pievi, torri, fortezze, e i marmi delle cattedrali, che maestranze dalle mani d’oro, come quelle di Wiligelmo, avrebbero ricamato con scalpelli fini quanto aghi in capitelli, portali, fiori e festoni pieni di grazia classica e di forza innovativa. Dalla madre, Beatrice di Lorena, provenivano i patrimoni dei manieri e delle valli incastonate tra Francia e Germania. Una sintesi dell’Europa, di cui Matilde si sentiva fiera cittadina.
Il suo fulcro restava Canossa. Sulla guglia d’arenaria, svettante nell’anfiteatro di calanchi di Riverzana, le reliquie della rocca si ergono ancora, colossale mascella di pietra. Chi si inerpica (e lo fanno in decine di migliaia, i turisti e i pellegrini, soprattutto da Spira, città natale di Enrico IV, gemellata con il comune matildino) lo fa per fantasticare sulle emozioni di quel gennaio del 1077, quando l’imperatore germanico Enrico IV, cugino di Matilde, reo di lesa maestà pontificia per essersi arrogato il diritto di nominare vescovi, pazientò tre giorni, vestito di sacco, i piedi nudi nella ghiacciaia spietata del monte, con in mano il battaglio del portone di Canossa, spasimando per gli acidi comodi di Ildebrando di Soana, Gregorio VII, che l’aveva fulminato con la scomunica.
La mazzata non era solo religiosa. Allo scomunicato i sudditi potevano rifiutare obbedienza e, soprattutto, i creditori le somme dovute. Un crac politico e finanziario. Matilde (che Ildebrando chiamava amata filia Petri e a cui, secondo le malelingue, riservava attenzioni più ardenti di quelle di un padre spirituale) offrì il salotto buono e il morbido della mediazione, lei che, nel dissidio tra i grandi, aveva scelto la Chiesa. Quando ci fu da combattere, la grancontessa s’infilò l’armatura di cuoio e di gioielli, anche se si avvicinava alla settantina. Il mito l’avvolse subito. In vita, quando si firmava con la sontuosa umiltà del suo ideogramma: Matilde, per grazia di Dio, si quid est, «per quel poco che è». Morente, quando bruciò l’arazzo della sua vicenda, che una vecchia ancella, silenziosa come una Parca istoriava da anni nella rocca paterna di Carpineto.

S’incenerì la sua gloria terrena: papi, cavalieri, regnanti, monaci, artisti, armate, tutto in faville, nel cielo d’Appennino. Ma cominciò la sua aura di santità, culminata in San Pietro, sotto il marmo funebre del Bernini.

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