Il presidente della Conferenza episcopale italiana s’è accorto che in chiesa, quella con la «c» minuscola, si sta esagerando, forse perché nella Chiesa con la «c» maiuscola qualcosa non va. Deo gratias. Il richiamo è risuonato forte e chiaro domenica scorsa. Il cardinale Angelo Bagnasco ha invitato a celebrare i matrimoni «all’insegna della massima sobrietà, senza nulla concedere a originalità e personalismi». I giornali hanno creduto che l’omelia fosse una reprimenda per le coppie alla Briatore-Gregoraci e per quei ministri del culto disponibili al ruolo di comparse sul set di un sacramento ormai trasformato in evento mondano. Si vede che i giornalisti frequentano poco le chiese. No, l’arcivescovo di Genova parlava a tutti i promessi sposi.
Ho notizie di prima mano - al pari di sua eminenza, immagino - su ciò che accade in giro per l’Italia durante le nozze, tanto che con alcuni fotografi sto pensando a un libro per immagini sull’argomento. Per rispetto della privacy e per carità cristiana manterrò una certa vaghezza su nomi e località. Nell’ultima predica, udita con le mie orecchie in una chiesa di montagna, il miracolo delle nozze di Cana («nozze di Canna», nella lettura di una testimone, salita all’ambone probabilmente dopo essersi fumata uno spinello) è stato così rievocato dal celebrante: «A un certo punto Maria si accorge che è finito il vino per i commensali. Allora si rivolge a suo Figlio e gli dice: “Gesù, qui siamo nei casini, non c’è più niente da bere”». Era la Madonna dei camalli, e noi non lo sapevamo.
La psicopedagogista Patrizia Stella, presente lo scorso 8 giugno alle nozze della figlia di un’amica celebrate all’aperto in un cortile di Milano, mi ha raccontato che il sacerdote ha sostituito le Sacre Scritture con un brano di padre Ernesto Balducci, defunto leader del dissenso cattolico, e al termine dell’unica lettura del Vangelo ha omesso di dire «Parola di Dio» perché, ha specificato il poco reverendo, «non ne abbiamo alcuna certezza». Rampognato al termine del rito, il prete diocesano, tale don Aldo, s’è difeso dicendo che ormai la gente non accetta più «le magie dei sacramenti» (testuale). Del resto è per aderire al linguaggio della gente che un vescovo veneto ha esortato nel seguente modo i ragazzini durante la cresima: «Dovete fare dello Spirito Santo il navigatore Gps che orienta la vostra vita». Non ha specificato se Tom Tom o Garmin.
Sette spose su 10 in procinto di recarsi in chiesa ordinano al fotografo di scattare la sequenza della vestizione, cioè vogliono essere ritratte senza l’abito nuziale. Ogni album che si rispetti deve aprirsi con questo défilé di biancheria intima. Sono addirittura le madri a spalancare le porte della camera: le figlie si limitano alle gambe. Molte si fanno trovare in reggicalze e mutandine di pizzo, senza reggiseno, ma capita pure che la futura signora riceva l’intruso sdraiata dentro la vasca da bagno. I maschietti si adeguano: in slip mentre si fanno la barba.
Un parroco della Valpolicella, terra di vino buono, è solito «intervistare» i nubendi dall’altare. «Dove lavori?», chiede alla sposa. Ottenuta risposta, gigioneggia: «Vengo a trovarti». L’ultima volta ha domandato a una procace testimone: «Sei sposata?». Lo era. «Peccato!», s’è rammaricato l’arzillo prevosto. Un confratello della zona predica così circa i doveri coniugali: «Fate e fatevi tutto quello che vi dà piacere. Ciò che è gradito a entrambi non è mai peccato». Che corrisponde alla teologia del corpo disegnata dal suo conterraneo e compagno di bagordi Milo Manara, persona di ampie vedute, e che vedute.
Com’è triste consuetudine ai funerali, anche ai matrimoni scrosciano gli applausi sollecitati dal celebrante, tanto comprensivo da tollerare che certe spose mastichino chewing-gum per tutta la durata del rito, altro che il digiuno eucaristico a partire dalla mezzanotte in vigore fino al 1953. Lo stesso celebrante dopo lo scambio degli anelli incita il marito in calo di zuccheri, e anche di spermatozoi stando alle ultime statistiche andrologiche, a offrire una subitanea prova di virilità alla moglie: «E adesso su, dalle un bacio!». Tirato a cimento dal ministro di Dio, il neosposo si lancia allora in quello che in Italia un tempo si chiamava «bacio alla francese» e in Francia «bacio alla fiorentina», oggi noto come «bacio profondo», lo stesso che la Chiesa medievale proibiva persino nei rapporti fra coniugi, insomma la slinguazzata.
Gli addobbi floreali sono stati adattati ai mutati costumi liturgici: in crisi fresie, calle, gladioli e lilium, ora vanno di moda mele, pere, ciliegie e limoni, inframmezzati nella stagione estiva dalle spighe del grano, ieri simbolo di una presenza nel tabernacolo, oggi sinonimo di un’assenza nel portafogli. La scenografia è allestita su misura per il reportage fotocinematografico. Di norma dovrebbero provvedervi i professionisti del ramo, che nel 1996 erano obbligati a partecipare a un apposito corso di formazione bandito dalla curia diocesana, a versare 100.000 lire e a restringere l’uso del flash alla sola benedizione degli anelli. Altri tempi: adesso, come documentano alcune buffissime foto che ho qui sott’occhio, non è raro incappare in cameraman, anzi camerawoman, in tonaca, suore per capirci, più abili con la Sony che col rosario. I preti usano il radiomicrofono auricolare come le star del rock; d’estate calzano i sandali e indossano i bermuda sotto la pianeta. Non manca il parroco patriota che celebra le nozze con in testa il cappello da alpino.
Fuori dalla chiesa è anche peggio. Il neosposo uso a contornarsi di amici ingegnosi può trovare una lapide che reca scolpite la sua data di nascita e quella di morte (quest’ultima coincidente col giorno del matrimonio, va da sé): anziché arrabbiarsi, è tenuto a esibirla agli astanti toccandosi scaramanticamente i pendagli. Riso e confetti non bastano più. Ho visto giovanotti cresciuti con la colonna sonora dello spot Barilla, quella di Vangelis che gli organisti suonavano regolarmente ai matrimoni negli Anni 80, arrampicarsi fin sul tetto della chiesa e scaricare sugli sposi, all’uscita, mastelli colmi di pennette e maccheroncini. Ho visto coppie obbligate con la forza: lui a togliersi le scarpe di vernice nera e i calzini grigio-perla per immergersi in una piscina d’acqua gelida improvvisata sul sagrato, lei a ricoprire terrine di fragole con un’allusiva spruzzata di panna. Ho visto spose alzare generosamente l’abito di raso con strascico, mostrando cosce e lingerie, col pretesto di far scoppiare sotto i tacchi i palloncini rosa disseminati per terra dagli amici. La limousine avvolta di carta igienica e le lattine vuote appese al tubo di scappamento rappresentano segni di grande distinzione.
Corroborati dal sacramento appena celebrato, una volta raggiunto il nido d’amore marito e moglie sottostanno ad altre dure prove, sempre preparate dagli amici: anguille vive nella vasca da bagno; sanitari impacchettati col Domopak; arredamento stravolto, con i mobili di cucina rimontati in camera e il letto al posto del fornello; pavimenti coperti da centinaia di bicchieri pieni di Coca-cola. Altre prove, un tempo espletate la prima notte, oggi vengono anticipate al pomeriggio. In una dimora storica nel Padovano a metà del banchetto la sposa ha congedato la fotografa con queste parole: «Se lei ha finito, noi andremmo a farci una sveltina».
Lo so che sembra incredibile. Purtroppo è tutto vero. Sono i nuovi coniugi del terzo millennio, quelli che scelgono per il catering la cinquecentesca Villa Godi Malinverni nel Vicentino ma poi, richiesti di posare fra le geometrie di Andrea Palladio, sbuffano col fotografo: «Meglio di no, qui non c’è niente di bello da vedere».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.