MAUGHAM Schiavo del successo vittima della critica

Si provi, il lettore, a vedere se e in quanto spazio i manuali e i repertori di letteratura inglese siano disposti a occuparsi di William Somerset Maugham. A parte rare eccezioni (Mario Praz), superciliosi critici, come Harold Bloom, o storici della letteratura, come David Daiches, non gli degnano una parola, e quella serpe velenosa di Evelyn Waugh è un po’ infastidito che egli racconti in prima persona, mentre Edmund Wilson, dalla sua turris eburnea dove cerca di stabilire le coordinate a fondamento della cultura moderna, non risparmia parole di sprezzo, come quando nel ’46, a una conferenza di Maugham alla Biblioteca del Congresso in cui il popolare scrittore fa una digressione su Proust, egli annota: «Non sa neanche di cosa parla».
L’evento citato celebrava la donazione alla Biblioteca del Congresso del manoscritto di Of Human Bondage, un libro pubblicato da Maugham oltre trent’anni prima, un romanzo forse tanto edoardiano quanto le sue commedie, conosciuto anche da noi fin dal ’40 col titolo di Schiavo d’amore, poi variamente tradotto, e che ora, di nuovo disponibile (Newton Compton, pagg. 536, euro 7), fornisce pretesto per qualche riflessione complessiva, e qualche interrogativo. Potremmo chiederci, ad esempio, come mai questo autore, che è stato tra i più letti del Novecento, e che continua a esserlo anche per iniziativa dell’editore Adelphi (Il velo dipinto, Lo scheletro nell’armadio, Pioggia, La luna e sei soldi, ispirato alla vita di Gauguin, Il filo del rasoio, La diva Julia), abbia trovato così avverso o elusivo, soprattutto in passato, il mondo accademico.
E la spiegazione purtroppo molto semplice è che la sua facilità del narrare, la franchezza naturalistica e così «francese» (derivata da Maupassant) della sua prosa apparentemente semplice, il racconto subito credibile, se da un lato lo rendevano caro al grande pubblico, non potevano dall’altro, come per compensazione, non mettere in sospetto la critica, anche per una sua popolarità di rimbalzo, per così dire, di cui egli godeva, ricavandone lauti proventi. Infatti, anche chi non aveva letto i suoi libri, lo conosceva in qualche modo attraverso i film che ne erano stati tratti: Pioggia con Joan Crawford, nel ’32, e nel ’54 con Rita Hayworth; Il velo dipinto, nel ’34, con Greta Garbo; Schiavo d’amore che in quello stesso anno rivelò Bette Davis; Ombre malesi, nel ’40, ancora con la Davies; e nel ’46, l’anno della stizzita recensione di Edmund Wilson, Il filo del rasoio, con Tyrone Power, e la seconda più piatta versione di Schiavo d’amore con Eleanor Parker, ma una terza ve ne sarebbe stata nel ’63 con Kim Novak, per non parlare di altri film, fino al più recente, La diva Julia, di un paio di anni fa.
Somerset Maugham visse per ventisei anni nell’Ottocento, e per i successivi sessantacinque fu per molti versi uno scrittore dell’Ottocento, o forse meglio edoardiano, che, pur calato nel nuovo secolo, non rinnegava gli strumenti espressivi, la lunghezza d’onda del vecchio, anche quando scriveva Ashenden, o l’agente inglese, sorta di antefatto letterario per i futuri Ambler, Fleming e Le Carré, pubblicato dopo l’esperienza a Mosca che egli aveva fatto verso la fine della prima guerra mondiale, quando lavorava per il servizio segreto britannico e in appoggio all’effimero governo Kerensky.
Maugham ebbe presto notorietà. Già nel 1908 aveva raggiunto quello che poteva considerarsi il sogno di molti autori: non aveva neppure trentaquattro anni e c’erano contemporaneamente quattro sue commedie in scena nel West End, mentre il sessantacinquenne Henry James, proprio allora, non riusciva a sfondare col teatro, e ne era sconvolto. Nel ’28, Maugham poté comprarsi la sua fastosa villa «La Mauresque» a Cap-Ferrat, dove cominciò a raccogliere opere dei maggiori pittori moderni, da Renoir a Picasso, e dove per decenni arrivarono ospiti illustri come il duca di Windsor e la sua Wallis Simpson, e poi i Churchill, i Beaverbrook. Non meraviglia di trovare, nei Diari di Harold Nicolson, accenni come questo: «Arrivato a Monaco, dove sono atteso dall’enorme autista e dall’immensa automobile di Willy Maugham. Parte con un boato come quello dei sei cavalieri dell’Apocalisse e romba attraverso Monaco, Villefranche, Cap d’Ail, stridendo attorno a precipizi, saettando dentro caverne... Siedo immobile e prego Dio, finché miracolosamente arriviamo».
Ma quel che più conta per noi, e conta anche per lui, è che, oltre ad averne riconoscimento, scrive bene e produce molto, ed è consapevole di una propria coerenza, del valore di ciò che scrive, sapendo equilibratamente di non doversene esaltare. Avrebbe dovuto essere semplicemente felice e soddisfatto. Invece... Cosa c’era dunque che non andava? Qual era il motivo della vena amara e scettica delle sue storie, nelle quali sembrava filtrare di continuo una certa tristezza delle sue esperienze di vita? C’è da chiedersi che origine abbia questa sua, come dire, scontentezza o autocommiserazione, che pervade, nonostante l’obbligato lieto fine, Schiavo d’amore, il suo romanzo più autobiografico, ancorché enigmatico ai fini del nostro interrogativo.
È la storia di una iniziazione alla conoscenza della vita per quel che è. Philip Carey, il protagonista, perduti i genitori, viene cresciuto da uno zio vicario e da sua moglie bigotta nel Kent. La sua menomazione, il piede equino, sembra acuire la sensibilità sofferta con cui vive il proprio sviluppo in un ambiente rigido e retrivo, fuggendo dal quale, come studente di medicina a Londra, approfondisce l’attenzione critica nei confronti degli atteggiamenti di vita e di costume, approdando a una sorta di superamento attraverso, banalmente, la ragionevolezza, attraverso una salvifica razionalità («Aveva un’infelice passione per la certezza»), che sembra incarnarsi in un assoluto accoglimento del richiamo della sensualità e dell’amore. Prima di riprendere in mano le redini della propria vita (per ragioni di lieto fine), la passione devastante che lo lega a Milred Rogers, l’insensibile e volgare cameriera che gli succhierà tutto senza nulla concedergli, sarà però una vera e tormentosa discesa agli inferi.
Gli spunti autobiografici, in Schiavo d’amore, sono addirittura eccessivi, soverchianti. Figlio di un consigliere legale dell’ambasciata britannica a Parigi, William Somerset Maugham era nato nella capitale francese, e a dieci anni, dopo la morte dei genitori, era stato affidato a uno zio, pastore nel Kent. Come il protagonista Philip Carey, aveva studiato medicina, anche nella stessa Heidelberg, ed era diventato medico. Solo che il nostro medico, Maugham, che decide presto di fare lo scrittore, avrà per il resto della vita un disincanto, una vena amara, che Philip Carey, sempre per lieto fine, sembra in qualche modo aver riscattato. I biografi di Maugham ricorrono a facili spiegazioni di tipo freudiano: la perdita della cara madre, l’assenza di un padre come figura cui identificarsi, l’omosessualità, e così via. E ce ne sarebbe abbastanza.
Ma occorrerà ricordare, come fece Gore Vidal in un breve scritto prezioso, quanto fosse non certo normale e neppure cantata ai quattro venti e se mai mascherata, l’omosessualità, da Oscar Wilde a Noel Coward, diventando in molti casi una specie di bisessualità, che, per quanto riguarda Maugham, sposato e con figlia, aveva sostanzialmente una funzione idraulica: chiudeva gli occhi e pensava ai ragazzi di Capri.

La deformità fisica (il piede equino) di Philip Carey, in Schiavo d’amore, cos’era, un paradigma dell’omosessualità di Maugham, o della pronunciata balbuzie di cui soffriva? Oppure era, anche, un’altra cosa, agghiacciante nella sua inconsistenza e banalità: la statura? Maugham non si piaceva per nulla, si rodeva dentro in continuazione perché era un metro e sessantasette.

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