È uno dei grandi eroi della storia del pianoforte jazz, e ogni anno arriva puntualmente al Blue Note animando le serate più «calde» del club milanese di via Borsieri. Lanno scorso ha fatto una tirata di sei giorni (due concerti per sera), questa volta si limita a tre (sei spettacoli), da stasera a venerdì. È Alfred McCoy Tyner, il pianista di Filadelfia, classe 1938, dalla straordinaria potenza e duttilità sonora che arriva con i fidi Gerald Cannon al contrabbasso e Eric Kamau Gravatt alla batteria. A completare il quartetto, torna il sassofonista Gary Bartz (che fu al Blue Note con Tyner nel 2007) mentre lanno scorso cera il trombettista Christian Scott. Tyner - anello di congiunzione tra i suoi maestri Art Tatum e Bud Powell e i jazzmen moderni - ha superato brillantemente alcuni problemi di salute, e torna a essere il più fecondo ispiratore dei pianisti moderni. Il suo suono è unico, e dominato dal contrasto sulla tastiera fra i fraseggi e le rapide fantasie melodiche della mano destra e i coloriti blocchi di accordi della sinistra. «Tyner suona il pianoforte come un leone ruggente», ha detto il critico Bill Cole, e questa è ancora una delle definizioni che meglio descrive lartista. Che esplose nei primi anni Sessanta suonando nel fantastico quartetto di John Coltrane (con cui aveva collaborato dal vivo poco tempo prima, per una settimana di concerti, in cui Tyner scrisse e regalò a Coltrane la celebre The Believer) per cinque anni; il primo organico comprendeva Steve Kuhn, Steve Davis, Pete LaRoca; quello più celebre - definito il più importante quartetto della storia del jazz - Tyner, Reggie Workman (poi Jimmy Garrison) e luragano Elvin Jones alla batteria. Presto però Tyner, dopo aver partecipato ad album come Live at the Village vanguard e A Love Supreme, quasi stordito dalle esplorazioni e dagli esperimenti coltraniani, se ne andò per la sua strada. Il suo eclettismo lo portò a viaggiare persino nei territori del rhythmnblues con Ike e Tina Turner e col blueman Jimmy Witherspoon, prima di formare una band con Sonny Fortune e di incidere dischi importanti come The Real McCoy insieme con stelle come Joe Henderson, Ron Carter e di nuovo Elvin Jones. Maestro del post bop, incide decine di dischi come Time For Tyner e Extensions, prima di raccogliere i frutti del successo nel 1972 con Sahara che la critica premia come disco dellanno, lavoro che anticipa la world music. «LAfrica, lIndia, il mondo arabo, la musica classica: tutti i generi sono legati fra loro», dice Tyner, che si allarga pericolosamente anche alla fusion e al jazz rock. Ma riprende sempre la via maestra con uno stile che trae la sua emozionalità dalla potenza sonora. Suono forte uguale rumore, ma non nel caso di Tyner, la cui potenza è rafforzata da un infinito vocabolario melodico. «Devi diventare tuttuno con lo strumento», dice lui, che intanto ha lavorato con tutti i grandi del jazz moderno, da Sonny Rollins a Eric Dolphy, da Art Blakey a Michael Brecker e che recentemente ha collaborato con Joe Lovano, ha inciso con accompagnamento darchi e arrangiato i suoi brani per big band, privilegiando la ricerca, guidando numerose formazioni e incidendo negli anni 80 e 90 notevoli dischi solisti (cè chi dice che quando suona in solitudine raggiunga lapice della sua creatività) come Revelations e lo splendido Soliloquy.
Oggi gira il mondo con il suo trio e un quarto artista ospite che spesso cambia, allacciandosi alla tradizione ma proiettandosi nellattualità e regalando, soprattutto in concerto, quelle forte emozioni che hanno spinto la critica ad affermare: «La sua musica è esultanza, è lesuberanza della vita vissuta».
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