Cultura e Spettacoli

Meglio la fiction sulla Brianza del Saviano «telepredicatore»

L’altroieri sera, mentre Fabio Fazio e Roberto Saviano snocciolavano parole e orazioni nel corso di Quello che (non) ho, programma in onda su La7, sette milioni e mezzo di italiani restavano inchiodati per la sesta volta di fila di fronte alla fiction di Raiuno, Una grande famiglia. Il successo di pubblico della «coppia dell’impegno» (un ottimo 12,66 per cento, record per La7, pari a circa 3 milioni di spettatori) non ha scalfito minimamente lo zoccolo durissimo dei fan della serie scritta da Ivan Cotroneo, genietto delle più innovative serie tv. Sostenere che il pubblico di Una grande famiglia fosse solo in cerca di svago, al contrario di Quello che non ho, sarebbe un errore.
A che spettacolo ha assistito infatti chi si è sintonizzato sul primo canale della tv di Stato? Non certo a uno show incapace di entrare, coi modi tipici del racconto, proprio quelli che piacciono a Saviano, nella più viva attualità. Nella storia tragica, misteriosa e infine felice (ma durerà? Lo sapremo nel sequel) dei Rengoni, titolari di un mobilificio in Brianza, lo spettatore infatti ha potuto vedere: due generazioni di piccoli imprenditori del Nord alle prese con la concorrenza globalizzata; un ritratto credibile di una parte del Paese raramente rappresentata sugli schermi; il tentativo scorretto di una Banca di appropriarsi del mobilificio di famiglia al fine di piazzarlo alla concorrenza; l’alleanza, un tempo irrituale oggi più abituale, fra imprenditori e sindacati in nome della comune lotta contro la recessione; una forte etica del lavoro radicata nei proprietari come nei dipendenti, tutti quanti convinti che la fortuna dei primi non sia separabile da quella dei secondi, e viceversa; una solidarietà che discende dal senso della comunità tutt’altro che perduto almeno in certe zone del Nord; una mobilità sociale che non dipende solo dai legami di parentela ma dalla volontà di intraprendere e di rischiare. Questo sul piano economico e sociale. Su quello del costume, è stata trasmessa una scena delicata, giustamente presentata senza falsi pudori ma con la prudenza necessaria per una fiction popolare in onda sulla rete ammiraglia della Rai: un bacio omosessuale, accompagnato prima dall’incomprensione dei genitori, poi dalla riappacificazione. Discutibile ma coraggioso e soprattutto fatto senza urtare la sensibilità altrui: il modo migliore per far passare un messaggio. Infine, per quanto riguarda ancora la famiglia, lo scontro-incontro fra genitori e figli ha mostrato quanto possa essere talvolta difficile la convivenza fra caratteri diversi. Ma anche la situazione più complicata si ricompone e trova soluzione perché, banalmente (ma è poi così banale?) i legami profondi non si lasciano troncare da divergenze in fondo marginali.
Nel frattempo, Roberto Saviano affrontava temi simili, in chiave più drammatica. Se la crisi, su Raiuno, era racconto, certo edulcorato, su La7 era orazione civile. Condita però da un narcisismo ostentato, a tratti fastidioso («Il governo mi deve ascoltare» dice a un certo punto Roberto. E perché mai? Non farebbe meglio ad ascoltare i parenti delle vittime e gli imprenditori attualmente nei guai?).
Per carità, nessuno intende sminuire il valore civile dell’intervento di Saviano sul suicidio degli imprenditori abbandonati dallo Stato insolvente. Vi sono stati momenti intensi e commoventi. Qui si vuole solo sottolineare il diverso linguaggio televisivo con cui sono stati affrontati argomenti tutto sommato vicini. La fiction è narrazione; il monologo, in questo caso, è stato orazione, con una spiccata tendenza alla predica.

E tra la predica di chi vuole spiegarci come va il mondo, senza che gli sia stata rilasciata la patente di maestro, e la semplice (ma non meno ambiziosa) narrazione di una storia, in moltissimi non hanno avuto dubbi: hanno scelto la seconda. Chi può dire quale, tra le due, quella «impegnata» e quella «leggera», sarà la lezione più duratura?

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