La melanconia che può vincere la depressione

Per i Pitagorici la filosofia era una medicina mentis. Lo studium ad bonam mentem. La sapienza del filosofo è quella che mira a conseguire una condizione mentale felice. Ma in cosa consiste la «salute della mente»? A togliere dalle sue tenebre il disordine, la follia. Il filosofo, in quanto medico della mente, è esperto del suo disordine. Ma la follia può anche essere una condizione che si avvicina a una conoscenza superiore (mantica) oltre a rappresentare una distruzione della stessa conoscenza (accidia-depressione). C’è tuttavia un pharmachon che può immunizzare la nostra anima dalla depressione: la melanconia. Che è la medicina contro il disordine spirituale, ci dice Pio Colonnello (Melanconia, Guida, pagg. 128, euro 8). Ma il farmaco è comunque un veleno. Contiene in sé una contrapposta possibilità. Che può risultare salutare o letale se supera o meno una certa soglia di tollerabilità. Come dire: per sfuggire alla morte dell’anima siamo costretti a incorporarne il principio. Per poter immunizzarci dalla possibile regressione nella depressione, siamo costretti a contagiarci, in forma preventiva e controllata, con quel male contro cui vogliamo combattere. È il passaggio che conduce, nella batteriologia medica, dall’immunità naturale a quella acquisita. Alla convinzione che una forma attenuata di infezione (la melanconia) possa proteggerci - immunizzarci - da una infezione più virulenta dello stesso tipo (la depressione). Si tratta, all’interno di questo dispositivo immunitario, di includere nella nostra anima ciò che tende a negarla. La melanconia - ci ricorda Colonnello - è quella condizione di abbandono contemplativo in cui avvertiamo l’inutilità del nostro inquieto fare. Nella nostra società, dove la frenetica accelerazione dei processi comunicativi, produttivi e di consumo sollecita la nostra esperienza a una febbrile «ansia del fare», la quiete contemplativa viene percepita come una condizione patologica. Eppure l’ozio è la radice e il fine del nostro inquieto fare. Nell’inoperosità - che noi traduciamo con «noia», mentre gli psichiatri con «depressione» - risiede la salvezza-salute del nostro fare. Non è forse vero che siamo sempre presi da mille cose per cui spesso la distrazione prende il sopravvento sulla concentrazione? Le opere a cui ci dedichiamo risultano spesso incompiute, spezzate. In questo senso, siamo tutti un po’ malinconici. Perché non riusciamo a portare a compimento le nostre opere. È come se, per poter vivere, dovessimo sacrificare la nostra vita. Immunizzarci, cioè, dal rischio della depressione. Introiettando nella nostra anima un po’ di quella depressione (la melanconia) da cui vorremmo proteggerci. Per poter fare cose inutili siamo costretti a immunizzarci, introiettando nella nostra anima, come antidoto, la nostalgia dell’ozio. È questo duplice volto (veleno e medicamento) - «erma bifronte» la chiama Colonnello - della melanconia che gli psichiatri dovrebbero interrogare. Perché la melanconia può venirci talvolta in soccorso. Aiutandoci a prender un momentaneo congedo dal nostro assillante fare.

Certo, l’«umor nero» della melanconia è una medicina che può avvelenare la nostra esistenza. Piegandola all’inerzia della depressione. Ma può essere anche una medicina che può impedire l’adattamento della nostra esistenza a un delirante fare spesso percepito come inutile.
giuseppecantarano@libero.it

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