Cultura e Spettacoli

MENEGHELLO Il talento della lingua

Alcuni mesi fa uscirono per la Bur i tre libri più noti di Luigi Meneghello, Libera nos a malo, I piccoli maestri, Pomo Pero. Nella prefazione a quest’ultimo, a firma Ferdinando Bandini, si leggeva: «Libera nos a malo irrompe sulla scena letteraria italiana nel 1963, e la sua voce è del tutto nuova, e si presenta autonoma rispetto ai valori esibiti dalla nostra narrativa novecentesca. Come se le tendenze già in atto (e autori solitamente indicati come picchi dei lavori in corso) non esistessero».
Di tale autonomia meneghelliana è tuttavia lecito dubitare, giacché anche ad alto livello l’uso del dialetto era già molto esteso: si pensi nella poesia a nomi significativi come Tessa, Giotti, Marin, Piero, Scataglini, e, nella narrativa, Fenoglio, Guerra, Pasolini, Testori, Mastronardi, e soprattutto, Gadda. Si ha l’impressione, al contrario, che l’intenso uso del dialetto nell’opera di Meneghello sia proprio in rapporto con il contemporaneo dilagare della narrativa dialettale italiana in competizione con lo pseudopurismo manzoniano, del resto già messo in crisi dall’esperienza «vociana», ma anche delle stesse pur diverse soluzioni stilistiche di Carducci, Pascoli, D’Annunzio.
Ma ora guardiamo di nuovo a questi testi con attenzione, aiutati dalla recentissima pubblicazione del «Meridiano» dedicato appunto a Luigi Meneghello (Mondadori, pagg. CLVVII-1801, euro 55, a cura di Francesco Caputo, introduzione di Giulio Lepschy, e con uno scritto di Domenico Starnone) di cui vengono riprodotte Opere scelte, quindi con l’esclusione di altri testi, come per esempio, e giustamente, il mediocre e ingeneroso Bau-Sète!
Meneghello è in primo luogo un sicuro talento letterario, e soprattutto - quasi a dismisura - linguistico. E il dialetto della sua terra, e del microcosmo del suo paese (Malo, appunto), non è tanto, come forse si potrebbe credere, una retromarcia verso un immaginario paradiso dell’infanzia, quanto il raffinato e compiaciuto vagheggiamento di quella condizione barbarica e a volte «infernale» che l’infanzia reale di solito rappresenta, con i suoi impulsi animaleschi, talvolta esplosi nella ferocia di disumane torture inflitte agli animali. Del resto l’autore sa bene, ma qui non lo dice perché sarebbe fuori tema, che quelle atroci torture sono inflitte dagli «scienziati» vivisezionisti al soldo delle case farmaceutiche e della cosiddetta «ricerca».
Questo grande signore della scrittura, a me sembra, cerca nell’impegno e persino nella creazione del linguaggio il compenso a una sua profonda scontentezza e quasi ripugnanza esistenziale, con il rischio di essere condannato a una sorta di non violento, ma non per questo meno sconsolante, cinismo, verso se stesso prima ancora che verso gli altri. È su tale inconfessata e tuttavia evidente attitudine che s’impianta, in parte riscattandola, una ironia persistente e un minimalismo affabulatorio che gli permettono di esorcizzare ogni patetismo, ma anche ogni orrore, e forse lo stesso Weltschmerz, l’onnipresente ed eterno dolore del mondo, e permettono allo scrittore di narrare con signorile disinvoltura e freddezza espressiva che non creino angoscia ma diano ugualmente conto dell’insensatezza o della crudeltà del vivere. E anche del vivere, comunque tragicomico, secondo perfetta razionalità o dedizione a una qualsiasi fede, religiosa o politica.
Esempi indiscutibili di ciò sono alcuni passi di questo singolare poièin; ad esempio, il telegrafico resoconto della giustizia sommaria di una giovane spia che - legate le mani con uno spago - viene lasciato indietro insieme con il suo giustiziere, che poi non è altro che un fragile ed esitante partigiano; o il gelido resoconto della manipolazione delle casse mortuarie dei più stretti congiunti (dell’autore) per far nuovo posto nella tomba di famiglia; o la civile ma gelida difesa del suicidio: «Un suicidio non è così importante, ma ha una funzione, dà un point vivace alle nostre piccole cose; e non si sa perché la Chiesa voglia negare rispetto e conforto a questa innocua e interessante “istituzione”». Il tempo sembra non esistere, per Meneghello, o meglio egli sembra aver raggiunto un perfetto equilibrio tra passato e presente, tra umiltà e superbia, tra vita e morte. E in bilico come un funambolo sul filo teso fra queste pseudoantinomie in realtà convergenti, egli può abbandonarsi, forse troppo spesso e troppo a lungo, a una sorta di humour nero.
È stato detto, a proposito de I piccoli maestri, che la partecipazione di Meneghello alla lotta armata durante la Resistenza è narrata in chiave antiretorica. Credo che ciò sia inesatto: più che di antiretorica, credo si tratti di una retorica dell’antiretorica, cioè della consapevolezza di aver compiuto quell’esperienza tragica come una specie di gioco sinistro di cui non si è nemmeno esperti ma che purtroppo ha significato anche violenza e massacri. In realtà Meneghello danza sorridendo intorno al cratere di un vulcano in eruzione.

E ciò, oltre al suo indubbio magistero linguistico, è forse la qualità essenziale del suo racconto: sfiorare senza ferirsi le abrasive punte dell’esistere senza altra speranza che non sia quella di una straordinaria capacità espressiva esplicata nell’insensato girotondo che si conclude e si confonde con il proprio inizio, non solo dell’autore, ma anche, pessimisticamente, nella vita di ognuno.

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