Meno disoccupati in Usa e i mercati brindano

Anche Barack Obama si è sbagliato. Come tanti, del resto: dagli economisti ai guru della Borsa, dagli analisti alla stampa. Tutti pronti a incassare un altro colpo sotto la cintura da parte del mercato del lavoro Usa, quasi come se un aumento della disoccupazione fosse ormai un appuntamento fisiologico, reso tremendamente normale e inevitabile perfino dalle ultime folate della recessione. E invece, no. Nel muro finora compatto della crisi dell’occupazione Usa si è finalmente aperta una crepa.
In luglio, il tasso dei senza lavoro è infatti calato al 9,4% dal 9,5% di giugno, mentre le attese erano per un’ulteriore risalita al 9,6%. È la prima volta dall’aprile 2008 che le rilevazioni del dipartimento al Commercio mostrano una flessione. A questa buona notizia, va sommata quella che riguarda i posti di lavoro tagliati il mese scorso, pari a 247mila, il ritmo più basso dall’agosto dell’anno scorso e anche in questo caso inferiori al consensus (stima di 320mila licenziamenti) e la revisione migliorativa del risultato di giugno, che mostra una flessione degli occupati di 443.000 da 467.000.
Insomma, una sterzata positiva che Wall Street ha subito interpretato come un segnale di ulteriore allentamento della morsa della crisi, forse ancor più significativa della modesta contrazione, appena l’1%, del Pil nel primo trimestre comunicata la scorsa settimana. Confortati anche dal ritorno all’utile di Aig dopo un biennio infernale, gli investitori non hanno più avuto dubbi nel far correre gli indici (a fine seduta +1,2% il Dow Jones, +1,4% il Nasdaq), con un inevitabile effetto-traino sui listini europei, dove i rialzi sono stati compresi tra lo 0,87% di Londra e l’1,66 di Francoforte (a Milano +1,29% il Ftse Mib). Di riflesso, l’euro ha chiuso in calo a 1,4202 dollari.
Nessun impatto, almeno in apparenza, hanno avuto le parole caute con cui la Casa Bianca ha commentato le prospettive occupazionali. «Possiamo vedere una luce alla fine del tunnel - ha spiegato - , ma il Paese ha ancora molto da fare. La mia amministrazione - ha aggiunto - ha salvato il Paese dalla catastrofe e il peggio della recessione potrebbe essere passato, dopo la sorpresa dei dati sulla disoccupazione a luglio». In precedenza, il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, aveva risposto «sì» a chi gli chiedeva se il presidente fosse ancora convinto che a fine 2009 la disoccupazione avrà toccato il 10%. Prudenza eccessiva, quella del successore di Bush? Meglio parlare di realismo. Con un ciclo economico ancora incapace di esprimere un tasso di crescita, non è improbabile ipotizzare nei prossimi mesi un nuovo deterioramento del mercato del lavoro. Obama deve oggi confrontarsi con quasi 15 milioni di americani a spasso e con i 6,7 milioni di posti bruciati dall’inizio della recessione (dicembre 2007). Per non parlare della continua crescita del numero dei disoccupati di lunga durata (più di sei mesi), salito a 5 milioni, e degli otto milioni di persone che lavorano part time e desidererebbero un tempo pieno. Resta dunque, per usare un linguaggio da esodo, una situazione da bollino nero, anche se in tutti i comparti si registra una decelerazione dei licenziamenti: dal manifatturiero (52.000 unità, il ribasso minore in un anno) alle costruzioni (-76.000 unità), fino al settore servizi, la principale fonte di lavoro negli Stati Uniti, dove l’occupazione è calata di 119mila unità, molto meno rispetto al mese precedente.
La fragilità del mercato del lavoro e l’insicurezza dell’impiego hanno determinato cambiamenti profondi nel comportamento degli americani. E non solo dal punto di vista dei consumi: si fanno meno figli, da quando la recessione ha colpito gli Usa. Per la prima volta dal 2000 il tasso di natalità è tornato in negativo proprio a causa di quello tsunami economico-finanziario che ha costretto le famiglie a tirare la cinghia e a risparmiare su culle e pannolini.

Secondo i dati previsionali forniti dall’agenzia federale che segue la salute dei cittadini, nel 2008 la flessione nelle nascite è stata del 2%, a fronte del record di gravidanze segnato l’anno precedente che aveva raggiunto le cifre registrate negli anni ’50, durante il baby boom.

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