MERCIER «Viaggio sul vagone delle parole»

«Il modo in cui parliamo di noi stessi, della nostra anima e della nostra mente, non è staccato da ciò che siamo»

MERCIER «Viaggio sul vagone delle parole»

Si comincia e si vorrebbe non smettere mai di leggere. Sarà per questo che Pascal Mercier è il supervincitore del Premio Grinzane-Cavour, scelto da studenti per lo più liceali, con il suo Treno di notte per Lisbona (Mondadori, pagg. 431, euro 18,50, traduzione di Elena Broseghini). Un professore svizzero, Raimond Gregorius, in seguito all’incontro con un’aspirante suicida e con il testo di un misterioso autore portoghese, Amadeu Prado, si mette sulle tracce di quest’ultimo, da Berna a Lisbona. Tentando di ricostruirne la vita, scopre anche tanti pezzi di se stesso che non immaginava.
Preferisce che la chiami con il suo pseudonimo, Pascal Mercier, o con il suo vero nome?
«Come vuole, io sono Peter Bieri».
Il suo non è un libro facile. Però, in fondo ai giovani piace Dostoevskij...
«Perché è autentico. Come William Faulkner, che non millanta, non fa giochi, non scrive per i critici, fa esattamente quel che dovrebbe fare uno scrittore: scrivere in modo autentico e diretto sui temi che lo interessano».
Anche La caduta di Camus comincia con il protagonista che sventa un suicidio e la sua vita cambia.
«Non avevo La caduta in mente, ma è vero. Confrontarsi con chi è tanto disperato circa la propria vita da volerle mettere fine, dà un’acuta consapevolezza non solo della mortalità, ma di tutto ciò che rende fragile la vita e la espone a smarrirsi o a essere distrutta, e impone a ognuno di domandarsi: che senso ha la mia vita? La voglio vivere così o dovrei concentrarmi su cosa potrebbe essere?».
In testa al romanzo cita Montaigne: noi siamo fatti tutti di pezzetti...
«Il mio libro è una variazione sul tema dell’essere o no un solo pezzo, su come le persone possono essere diverse nella loro identità interiore vivendo a livelli differenti. Gli esseri umani tendono a cadere in pezzi. Quando sono sotto pressione si rintanano nell’identità sociale, ovvero familiare, professionale, anche nazionale. Identità che aiutano ad andare avanti, ma se la pressione aumenta scopriamo che neppure queste identità sono poi così forti».
È ciò che capita ai protagonisti, Gregorius e Prado.
«Sì. Gregorius scopre molte cose riguardo se stesso cercando di ricostruire la vita di Prado. Il libro è anche uno studio sulla conoscenza di sé attraverso la conoscenza di altre persone».
Le parole sono al centro del libro. Eppure, c’è anche un livello emozionale. Che rapporto c’è tra parole ed emozioni?
«Gregorius e Prado sono due poeti: credono che le parole siano più importanti delle cose e che il nostro atteggiamento verso il mondo sia strettamente definito dalle parole che usiamo. Ne consegue che qualcosa è reale solo se articolato e catturato nei libri. Il mio è un libro sul linguaggio. Il discorso sul rapporto tra parole ed emozioni è più complicato e riguarda la loro diversificazione. Il modo in cui parliamo di noi stessi, della nostra anima e mente, non è staccato da ciò che siamo, si definisce in modo creativo con la parola. Ho voluto riconoscere il valore delle parole, ma anche difendere l’importanza della poesia nel formare la nostra identità emozionale, praticamente tutto ciò che conta nella vita».
Molti temi s’intrecciano. Per esempio il viaggio e il treno.
«Viaggiare seduti in treno significa trovarsi in un costante processo di cambiamento. Così è la nostra vita, non una sostanza permanente, invariabile, ma di cambiamento. Guardare dal finestrino il paesaggio che scorre apre la porta all’immaginazione, è un sogno a occhi aperti sul passato e il futuro. Quando il treno si ferma, la storia della libertà si ferma. Questa è l’idea di base del treno come metafora della vita psicologica».
È un libro d’avventura...
«Sì, lo è per il viaggio di Gregorius, per come cambia la sua vita, ma anche perché avventurosa è la vita di Prado. Ma è anche un libro attorno alle grandi questioni: morte, solitudine, colpa... Aiuta i lettori a riscoprire, ridefinire e reinventare se stessi».
Viene fuori il professore di filosofia che è in lei. A proposito, insegna ancora?
«Vado in pensione in autunno, a 63 anni, due anni prima per avere più tempo libero».
Il suo libro attraversa l’Europa, è un libro europeo.
«È un omaggio al latino, all’Europa romana, al Mediterraneo: Spagna, Portogallo, Italia... Ragazzo svizzero, andai in Italia la prima volta e mi si aprì un mondo. L’Italia è il Paese dell’immaginazione, della libertà, dei colori... della poesia. Vivendo due anni a San Francisco e Boston, ho capito quanto profondamente mi senta europeo. L’Italia ha avuto un ruolo decisivo nel farmi diventare scrittore. Non avrei scritto il primo romanzo se non mi fossi preso un anno sabbatico nella zona di Lucca. Mi piace la lingua, la luce. La luce è molto importante»: dopo la carriera di scrittore voglio fare il fotografo».
Il prossimo libro?
«Un testo di filosofia che spieghi in termini non tecnici i temi fondamentali. Potrei intitolarlo: “Le cose della vita”. Voglio che maturi, che non sia accademico ma accessibile a chiunque conosca la lingua in cui legge».
Lei è credente?
«La religione è il tentativo di spiegare le esperienze e le situazioni più profonde della vita.

Reagisce a situazioni che sono fuori dalla nostra portata. Per il filosofo esistenzialista la religione è importante, io ho studiato anche il sanscrito, sono abbastanza esperto di buddhismo e di induismo. Però sono ateo».

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