Il meridione è stato la vittima inerme della rapacità nordista

Amico Granzotto, mi consenta di chiamarla così frequentandola seppure impersonalmente da oltre vent’anni, cosa succede? Dopo aver per lunga pezza fieramente polemizzato nel suo angolo con gli adepti della Vulgata risorgimentale getta la spugna e passa questo succoso e intrigante argomento al suo dirimpettaio Mario Cervi, che non la pensa esattamente come lei? In vista del centocinquantesimo dell’Unità preferisce mettersi in disparte e lasciare che le celebrazioni abbiano luogo nel trionfalismo subalpino?
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È vero, Mario ed io abbiamo visioni un tantinello divergenti sull’epopea risorgimentale, ma niente che non si possa chiarire con una bella scazzottata, come diceva quel tipo alla mano di Mike Tyson. Vedo, però, che Mario si «apre al dialogo» auspicando nel contempo il ritorno a un Risorgimento meno retorico, a un’equilibrata valutazioni delle luci e delle ombre risorgimentali pur senza arrivare, eh eh, a una «impossibile» riabilitazione dei Borboni. E qui sta il punto. Perché non si tratta di riabilitare, ma semplicemente di abilitare una schiatta (e di conseguenza il loro regno e i loro sudditi) che la storiografia risorgimentalista ha letteralmente coperto di guano per giustificare lo scippo, resosi dunque necessario al fine di redimere i duosiciliani, affrancarli dalla ottusa tirannia borbonica e portarli per mano verso le luminose praterie dove cresce l’erba della libertà, della pace, del progresso e dell’armonia sociale. Fatto sta che gli argomenti portati oggi a suffragio della scatologica damnatio personae son sempre quelli di Luigi Carlo Farini, il quale così dava conto a Cavour (mai sceso oltre Firenze) dell’appena redento Regno delle due Sicilie: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civile». Primo asso di bastoni: le condizioni sociali ed economiche dei contadini meridionali. Pessime. Miserande. Certo, ma non è che i contadini piemontesi e lombardi stessero meglio e godessero dell’orario di lavoro, di una dignitosa retribuzione, di alloggi con servizi, della cassa mutua, dell’assicurazione sanitaria e delle ferie retribuite. Una era la condizione contadina, vuoi sotto i Savoia, vuoi sotto i Borboni. Secondo asso, di coppe: sì d’accordo, la prima ferrovia fu la Napoli-Portici, «trastullo del Re Bomba», ma trent’anni dopo il Nord contava oltre 2 mila chilometri di strade ferrate e il Sud solo un centinaio. Ma va? Ma davvero? E chi mai, dopo il 21 ottobre 1860, le doveva costruire le ferrovie nell’«Affrica» se non i bravi amministratori piemontesi? Che si guardarono bene dal farlo, privilegiando (dopo essersi appropriati dei cantieri navali, degli opifici, delle industrie per la produzione di rotaie e materiale rotabile, tutti locati al sud) i Gianduia e i Brighella ai danni dei Pulcinella. Terzo asso, di fiori: nel Meridione c’erano pochissime strade. Vero. C’era la dorsale adriatica e quella tirrenica, mancavano del tutto o quasi le vie di comunicazione fra l’una e l'altra sponda. Anche qui si potrebbe osservare che una volta diventati i padroni non è che i bravi piemontesi ci abbiano dato dentro, con le strade.

Ma il punto è un altro: la civiltà si misura a pietre miliari o a università? Se ne può citare una pre risorgimentale che tenesse testa a quella di Napoli? Quarto asso, di quadri: ma se il Meridione aveva davvero uno standard economico e culturale ai livelli di quelli piemontese e lombardo veneto, come mai non l’ha mantenuto riducendosi a provincia parassitaria e inoperosa? E qui vale la risposta data all’asso di coppe: la criminalizzazione, il disinteresse per l’«Affrica», la sistematica spoliazione da parte dei conquistadores avrebbero reso Meridione anche il Bacino della Ruhr, figuriamoci ’o Paese do’ sole.

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