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MERLEAU-PONTY Il pensatore «ambiguo» di fronte alla creazione

Dalla Francia il tentativo di «rilanciare» il seguace di Husserl

VITTORIO MATHIEU Tra i «pensatori esemplari» nati nel Novecento molti non troveranno eredi nel secolo Ventunesimo. Il Jean-Paul Sartre geniale di La Nausea si castrò mettendosi a rimorchio dei Sessantottini. Michel Foucault rese di moda l’omofilia, ma in Le parole e le cose usò molte parole per dire poche cose. Jean-François Lyotard, inventore del «postmoderno», finì col dissolversi, nei suoi discepoli, in un relativismo storicistico. Gilles Deleuze cade presto in balia del sinistrismo di Guattari. Karl Otto Apel - che, attraverso Habermas, risale per opposizione all’ermeneutica di Gadamer e, quindi, di Heidegger - si limita a predicare il dialogo tra i fedeli dei «valori condivisi» (dialogo che noi abbiamo conosciuto nel tardo Calogero). Jacques Deridda, che mette in guardia contro la «metafisica ingenua», dà luogo a un’antimetafisica altrettanto ingenua. Finisce con l’aver ragione il lituano emigrato in Francia, Emmanuel Lévinas, quando dice che la «filosofia prima», oggi, non è più la metafisica ma è l’etica, riconoscimento del «tu».
Forse non ebbe, per contro, la fortuna che avrebbe meritato, nel secondo Novecento, Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 1908 - Parigi, 1961), un nome che fa sospettare origini italiane, anche se proprio in Italia attirò l’attenzione di Enzo Paci (1958) e di Giorgio Derossi (1965). Ora mi auguro che nel nuovo secolo quel seguace e critico di Edmund Husserl trovi quell’accoglienza che ebbe solo in parte nel secolo precedente. Me lo fa pensare un libro scritto da un giovane italo-svizzero, Alessandro Delcò, addottorato a Zurigo, ricercatore a Torino e Parigi e attualmente in forza al Consiglio svizzero delle ricerche: Merleau-Ponty et l’experience de la création. Du paradigme au schème (Presses Universitaires de France, 2005).
La «creazione» non è trattata tematicamente da Merleau-Ponty, ma il lavoro di Delcò mostra che è al centro del suo pensiero. Nel vissuto e nel sensibile Merleau-Ponty cerca il manifestarsi dell’invisibile: e questo è la creazione. L’invisibile non è un ente diverso dal visibile, ma è il visibile stesso (o l’esperibile: in primo luogo il nostro corpo), nei suoi aspetti nascosti; e la creazione li mette in luce. Ciò che esperiamo non è mai una realtà soprannaturale; ma l’occhio del «fenomenologo» fa emergere nel sensibile un senso che, per contro, sfugge a chi non vi bada e trova che tutto «va da sé».
Delcò sviluppa questo tema a proposito di quattro concetti problematici: la natura, la storia, il linguaggio e l’arte, vista soprattutto come pittura figurativa (Paul Cézanne). La folla di problemi che a questo proposito si affacciano, in meno di duecento pagine, è tale che una recensione può darne solo qualche assaggio. «Natura», ad esempio, va presa in senso vichiano, come «nascimento in certi tempi e in certe guise». Cioè in forme determinate, che non calano da un altro mondo, ma s’inventano, per così dire, da sé. Nascendo, vengono inevitabilmente a trovarsi in rapporto con altre forme. Per questo la vita organica - assoluta eccezione rispetto all’inanimato, nel suo venire al mondo inventivo e rischioso - è estremamente rivelativa. Charles Darwin scoperse, bensì, che le specie si fissano automaticamente, mediante la sopravvivenza del più adatto: ma, prima che la necessità selezioni il più adatto sopprimendo l’inadatto, occorre che, non il caso (come voleva Jacques Monod), bensì la creatività naturale abbia inventato l’inadatto. Più risaliamo all’indietro nell’evoluzione, più troviamo organismi perfettamente adatti all’ambiente. E se al culmine dell’evoluzione siamo soliti collocare l’uomo, è solo perché l’uomo è costretto ad adattarsi a qualsiasi ambiente, appunto perché è il più inadatto a tutti gli ambienti.
Analogamente il parlare è il tentativo di far emergere un senso (mai univoco: Merleau-Ponty, osservò con altri Alphonse de Waelhens nel 1951, è il «filosofo dell’ambiguità»), mettendo insieme suoni così privi di senso da potersi combinare indifferentemente in migliaia e migliaia di lingue.
Tralascio altri esempi, augurandomi che il lettori li cerchi nel libro che, tra l’altro, è scritto in un francese stupendo, nonostante il ricorso a una terminologia «creativa», come quella di tutta la fenomenologia. Spesso ormai i francesi scrivono le loro tesi di dottorato (che un tempo erano modelli di lingua) come se fossero tradotte dal tedesco. Il non francese Delcò, per contro, scrive in un francese inventivo e perfetto. Anche Marc Fumaroli (altro nome italiano: siamo per caso a un secondo Rinascimento?) scrive un francese di rara bellezza, ma, dati i suoi temi, è un francese del Seicento.

Delcò scrive un francese del Settecento, che potrebbe essere di Diderot o di Voltaire, se non contenesse quelle metafore tecniche che han fatto la fortuna (e la disgrazia) delle filosofie esistenzialistiche del Novecento. Ma questo fa parte, appunto, della creazione filosofica: invenzione di un linguaggio riuscito.

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