Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
L’ultimo allarme sulle minoranze riguarda degli ultraminorenni. Uno studio pubblicato dalla Washington Post rivela che quasi metà dei bambini americani al di sotto dei 5 anni sono figli di immigranti e che, fra questi ultimi, il 70 per cento sono di lingua spagnola. Dati che, prevedibilmente dato l’umore di queste ultime settimane, vengono visti soprattutto come un problema economico: i figli degli immigranti sono in genere più poveri, non parlano inglese a casa, la loro presenza massiccia rischia di abbassare ulteriormente il livello delle scuole elementari americane, che è già fra i più bassi del mondo (inoltre, e questo va detto proprio fra parentesi, molti di questi immigranti, milioni, sono «illegali», anche se pagano le tasse più o meno come gli altri e ricevono più o meno gli stessi servizi che se fossero registrati con tutti i crismi). Sono cifre impressionanti, però tutt’altro che nuove o impreviste. Gli immigranti formano già il 20 per cento del totale della popolazione. Sono cioè quasi 60 milioni. Sono in media molto più giovani degli «americani standard» e quindi fanno più figli, soprattutto fra i latinoamericani con le loro tradizioni cattoliche e di miseria. Inoltre i «nuovi americani» sono molto meno numerosi in età avanzata, per esempio fra i pensionati; col risultato che sono i latini, gli asiatici, eccetera a mantenere in piedi, pagando i contributi, la Social Security, il sistema pensionistico di base.
Niente di nuovo, dunque. Però questa gente fa molto più notizia adesso che non dieci, cinque, un anno fa, e non perché il flusso sia aumentato (anzi, dall’inizio della guerra in Irak l’attrazione per gli Stati Uniti è un po’ diminuita), ma perché il problema degli «illegali» è balzato in primo piano. A elevarlo allo status attuale sono in parte considerazioni elettorali nell’avvicinarsi delle votazioni per il rinnovo del Congresso, in parte l’accresciuta preoccupazione un po’ di tutti gli americani ai problemi collegati con la «sicurezza» in conseguenza della strage delle Torri Gemelle e del continuo allarme terrore, ma soprattutto per due iniziative. La prima è difensiva e si manifesta nel moltiplicarsi delle iniziative per la costruzione di un muro che «protegga» gli Stati Uniti nelle sue immense frontiere terrestri, per ora soprattutto quella col Messico. Le misure di sicurezza sono state già rafforzate in Texas, se ne discute da anni in California, di conseguenza l’immigrazione illegale si concentra sempre di più alla frontiera con l’Arizona, la meno protetta. Reazione alla reazione, gli immigrati sono venuti allo scoperto con un gesto audace, amichevole, ma per molti allarmante perché ha un suono di sfida. Hanno organizzato nelle scorse settimane marce nelle principali città americane in cui non soltanto si chiede la legalizzazione generale della presenza degli illegali, ma si afferma la loro identità americana e, dunque, la parità di diritti anche sul piano affettivo, emotivo e patriottico. Gesto simbolico e controverso, l’inno nazionale Usa è stato tradotto e viene cantato in spagnolo. A molti ciò non è piaciuto e anzi si è sviluppato un backlash, una reazione che può sembrare soprattutto di gelosia: il nostro inno è scritto in inglese e dunque non si può cantare in un’altra lingua. Lo stesso Bush si è lasciato trascinare a dichiarazioni in questo senso. Anche Bush è alla ricerca di temi che risuonino con l’elettorato per cercar di aiutare il suo partito a salvarsi dalla sconfitta che pare incombere in novembre e che è causata quasi esclusivamente dal crollo di popolarità del presidente. Il collegamento immigranti-facinorosi-potenziali terroristi viene a taluni spontaneo e da altri viene accuratamente innaffiato; anche se l’immigrazione negli Stati Uniti è completamente diversa da quella europea. Da noi arrivano soprattutto dei musulmani decisi a proteggere la propria identità, in America quasi esclusivamente persone che non sognano altro che diventare americane.
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