Gli attentati che hanno sconvolto ieri Algeri vengono da lontano, ma sono anche forieri di una nuova grave minaccia per l'Europa. Vengono da lontano, perché Al Qaida per il Maghreb islamico, l'organizzazione responsabile di questi attacchi, discende in linea diretta dagli estremisti che, quindici anni fa, scatenarono nel Paese una guerra civile che fece oltre 200.000 vittime e che, nonostante amnistie e aperture culminate un anno fa in una «Carta per la pace e la riconciliazione nazionale», non è mai del tutto cessata. Sono forieri di una nuova grave minaccia per l'Europa, perché, se il terrorismo tornasse a prendere piede su vasta scala in Algeria e riuscisse a destabilizzare il governo del presidente Bouteflika, ci ritroveremmo una base jihadista a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste, in un Paese che oggi fornisce all'Italia circa un quarto del suo fabbisogno di metano e da cui è appena iniziata una ondata di immigrazione clandestina diretta verso la Sardegna.
A mettere paura è la rapida escalation delle attività dei fondamentalisti, da quando, nel gennaio scorso, il Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento si è ufficialmente affiliato alla organizzazione capeggiata da Bin Laden e ha dichiarato la sua «guerra di liberazione contro crociati, apostati e agenti stranieri». Il 13 gennaio ha fatto esplodere sette bombe nella regione di Algeri, il 5 marzo ha attaccato in Cabila uccidendo una decina di persone e adesso ha addirittura semidistrutto, con un attentato suicida, il superprotetto Palazzo del governo. Alcuni analisti ritengono che si tratti di una reazione a una operazione di rastrellamento in corso contro i terroristi nelle montagne a sud della capitale, altri di un altolà al governo, che - memore di quanto avvenuto in passato - ha deciso di escludere dalle elezioni legislative del 17 maggio il principale partito islamista, El Ilsah.
Quale che sia stato il fattore scatenante, dobbiamo prendere atto del tentativo di Al Qaida di rilanciare quello che fu il primo conflitto armato tra Islam fondamentalista e Islam modernizzante: la sanguinosa faida iniziata nel 1992 quando i militari algerini, spaventati dal successo del Fronte islamico di salvezza (Fis) nel primo turno delle elezioni politiche, cancellarono il secondo e presero il potere.
L'Occidente, allora, non comprese bene la posta in gioco. Mancavano ancora nove anni all'11 settembre, Al Qaida era di là da venire e gli attentati suicidi una rara curiosità. Nessuno parlava ancora di offensiva jihadista o di conflitto di civiltà. Sia gli Stati Uniti, sia la Ue condannarono il golpe e Francia ed Italia offrirono addirittura asilo politico a numerosi esponenti del Fis fuggiti dal loro Paese. E quando, nell'autunno del '95, mentre la guerra civile impazzava con punte di crudeltà da far rabbrividire, una delegazione del Senato italiano di cui facevo parte ruppe l'embargo e si recò in visita ufficiale ad Algeri. L'iniziativa fu molto criticata. Ma, dopo alcune giornate di colloqui, mi resi conto che i militari algerini avevano sì interrotto un processo democratico, ma in realtà avevano preservato l'Europa da una terribile iattura: l'instaurazione, nel cuore del Maghreb, di una specie di stato talebano ante-litteram.
Le bombe di Algeri non significano naturalmente che questo sia di nuovo dietro l'angolo. L'Algeria non è l'Afghanistan, il Fronte di liberazione nazionale che domina la scena politica fin dall'indipendenza ha solide radici nel Paese e l'influenza occidentale è molto più forte. Tuttavia, un diffuso malcontento verso il governo, una elevatissima disoccupazione giovanile e una economia troppo dominata dagli idrocarburi (che costituiscono il 95 per cento delle esportazioni) rendono il Paese più vulnerabile di quanto sembri.
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