Cronaca locale

Metheny Group al Mazdapalace fra jazz e pop

Il grande chitarrista si presenta con la sua formazione reduce da un tour mondiale. In scaletta un brano di 68 minuti dell’album «The Way Up»

Franco Fayenz

Ritorna a Milano il Pat Metheny Group. Come abbiamo anticipato ieri, l’appuntamento - ultimo di sei concerti italiani - è per questa sera alle 21 al Mazdapalace. Il grande chitarrista si presenta con Lyle Mays (pianoforte e piano elettrico), Steve Rodby (contrabbasso e basso elettrico), Antonio Sanchez (batteria), Cuong Vu (tromba, percussioni e voce), Gregoire Maret (armonica a bocca) e Nando Lauria (chitarra, percussioni e voce). La formazione, e probabilmente anche il programma, si ispirano al recente album di Metheny e Mays The Way Up, il primo realizzato per Nonesuch, che contiene un’unica composizione di significativa maturità, 68 minuti di musica in un'ouverture e tre parti. È appena il caso di sottolineare che il Pmg è uno dei complessi più amati a livello internazionale e amatissimo in Italia per la sua intelligente posizione «border line» fra il jazz e la migliore popular music. Quest’anno, infatti, il gruppo si è potuto permettere un altro tour mondiale. È un’impresa per pochi.
Metheny ha oggi cinquant’anni e trenta abbondanti di carriera. Il pensiero di un buon intenditore ripercorre il periodo del suo esordio, fondamentale per capire un personaggio di questo spessore. Il decollo del «ragazzo arrivato dal Missouri» è avvenuto poco prima della metà degli anni Settanta fra New York e Monaco di Baviera. Era una fase ricca di fermenti discografici. Nel 1974 Paul Bley aveva fondato la sua Improvising Artists Inc. che chiuderà in breve dopo aver prodotto 20 lp/cd straordinari; la Ecm di Monaco compiva sei anni di attività, e il produttore Manfred Eicher era un vulcano di idee per affermare sempre più la sua etichetta. Il primo ad accorgersi del talento del giovanissimo solista (e già insegnante), dotato di suono e di fraseggio affascinanti e inconsueti, innamorato di Ornette Coleman e di Miles Davis, è Bley che il 16 giugno 1974 lo porta in studio di registrazione per incidere un disco in nome collettivo con Jaco Pastorius, Bruce Ditmas e se stesso. Un mese dopo Eicher dà a Metheny come direttore il vibrafonista Gary Burton: Ring, un lp in quintetto, viene realizzato a Ludwisburg e il chitarrista è scritturato dalla Ecm. L’accordo con Eicher durerà dieci anni, poi si scioglierà perchè il produttore esige dischi impegnativi (come Bright Size Life in trio con Jaco Pastorius e Bob Moses, 1975, il primo a nome di Metheny; oppure 80/81 in quintetto con Charlie Haden, Jack Dejohnette, Dewey Redman e Mike Brecker, 1980) mentre Pat ha soprattutto il Pmg a cui pensare.
Andiamo con ordine. Il 2 luglio 1977, alcuni musicofili italiani che a New York fanno il giro notturno dei jazz club, arrivano in un locale che adesso non c’è più, l’Axis in Soho, attirati da due set per pianoforte solo di Paul Bley e di Sun Ra. In questo modo si imbattono in una sorpresa organizzata da Bley, la prima uscita in pubblico di un quintetto di giovani che si chiama Pat Metheny Group. Lo ascoltano, ne restano molto ammirati e portano la notizia al di qua dell’oceano. Avvertono che «il gruppo è eccellente, ma i soliti puristi arricceranno il naso per via dei ritmi rock (non sempre) e di qualche concessione alla popular music».
Ma il ragazzo venuto dal Missouri aveva visto giusto.

Oggi i suoi dischi «difficili», da jazzista duro e puro come Song X con il prediletto Ornette Coleman, Zero Tolerance for Silence in solo, Missouri Sky con Charlie Haden, Like Minds con Gary Burton, Chick Corea, Roy Haynes e Dave Holland e lo stesso The Way Up, non attirerebbero tanti ascoltatori se il protagonista non fosse il titolare del Pmg.

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