Il «metronomo» che non piaceva ai puristi

Arigliano, il suo senso del ritmo colpiva i colleghi, ma i critici non gli perdonavano «Canzonissima»

Nicola Arigliano non cantava swing. Era swing. Forse perché era nato balbuziente, aveva imparato a saltellare da una parola all’altra velocemente, con scarti improvvisi, seguendo una metrica tutta sua. Una metrica swing. E poi l’ironia: fino all’ultimo. Sul palco, annunciando le canzoni di compositori morti, diceva sempre: «Chi ha scritto questo brano è in tournée, ma tornerà presto». Ora è partito in tour anche lui, con la sua coppola nera e il tanfo di aglio e tutte quelle mattane che lo facevano odiare dai suoi colleghi per le prime due ore e poi amare per sempre. Tutti, da Franco Cerri a Gianni Basso, ossia signori del nostro jazz, dicevano: un senso del ritmo così non ce l’ha nessuno. Quando lo conobbe, fine anni ’50 all’epoca della Voce del padrone, Nat King Cole rimase a bocca aperta: mai visto uno così, neanche ai tempi del Rat Pack di Frank Sinatra, Sammy Davis e Dean Martin. Lui in poche parole tolse lo smoking allo swing. Lo rese ruspante e pur sempre elegantissimo, scanzonato come piaceva tanto all’uomo della strada e meno ai puristi del jazz, quelli che non hanno mai accettato che fosse stato lui, un eretico, a portarlo addirittura in tv, per di più a Canzonissima, tempio del pop. «Ho cominciato da ragazzo, studiavo armonia e sono un bachiano convinto, mi piace tutto di Sebastiano». Dopo aver iniziato, iniziò anche a decidere cosa fare. Prima suonava la batteria poi, disse, «un giorno la buttai da un ponte nel Po». Poi il contrabbasso. Poi cantò: la sigla del programma Sentimentale di Lelio Luttazzi, nel quale era ospite fisso con Mina, divenne un grande successo inciso da entrambi a modo loro. Essendo un emigrante - e da Squinzano a Milano era stato un passo molto lungo - adottò anche lui i titoli bilingui come andava di moda a fine anni Cinquanta: I sing ammore, My wonderful bambina, I love you forestiera. Al pubblico venivano in mente quando la tv trasmetteva la reclàme, allora si diceva così, del digestivo Antonetto. Oppure quando appariva in tv, come a Non Stop di Enzo Trapani nel ’77, vestito da pistolero che sparava dicendo: «Non voglio noie nel mio locale». Ma sul palco, accidenti, una furia. Il suo ultimo discografico, l’inarrestabile Stefano Senardi, dice ancora che «i più bei nomi del jazz italiano lo amano», e qualcosa vorrà pur dire. Al Festival di Sanremo del 2005, anni 81 suonati per davvero, inventò una On the sunny side of the street da pelle d’oca, con fior di musicisti come Franco Cerri e Antonello Vannucchi, lui sempre preciso come un metronomo anche quando gli scappava l’improvvisazione. Ce l’aveva nel sangue perché l’improvvisazione è come l’ironia: salta fuori sempre, inarrestabile.

Anche nella casa di riposo di Calimera, dove arrivò dopo un’ischemia, fulminava tutti, stanchissimo com’era e disilluso, magari dicendo il solito «salutami a sorata» e ritornando subito nel mondo che era suo, fatto di night con la nebbia di fumo e quel gusto retrò di scomporre la vita con la metrica imparata da bambino scappando per sempre dalla normalità.

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