In mezzo alle tragedie cantava in «Allegria»

Viaggiatore inquieto, fu perseguitato dalle disgrazie proprie e altrui. E i suoi testi, brevi e intensissimi, riuscirono a commuovere persino il suo amico Mussolini

Nacque in una burrascosa notte invernale e ebbe un’esistenza costellata di lutti. Viaggiò molto, inquieto. Visse come un esule tra Africa, Europa e America. Tuttavia, intitolò Allegria la sua opera più famosa. Un nome bizzarro e incongruo per quello che è, piuttosto, un catalogo di tragedie. Dovette accorgersene anche Mussolini che ne firmò l’introduzione. Il Duce, che in genere aveva nello scrivere i toni della mitraglia e la sensibilità di un tritasassi, usò per il Nostro accenti crepuscolari. «Coloro che leggeranno queste pagine - scrisse commosso - si troveranno di fronte a una testimonianza profonda... fatta di sensibilità, di tormento, di ricerca, di passione e di mistero».
A due anni rimase orfano del padre, un operaio lucchese emigrato per lavorare alla costruzione del Canale di Suez. La madre si rimboccò le maniche e aprì un forno alla periferia della città portuale, ai margini del deserto. Il bimbo fu tenuto a balia da una nutrice sudanese e allevato da una domestica croata. Fece le medie e il ginnasio dai salesiani, la cui severità lo allontanò dalla religione. Riprese fiato, frequentando il liceo alla Scuola svizzera. La sua lingua prevalente fu il francese, il suo amico più caro, Moammed Sceab, un compagno di classe arabo che viveva in una tenda. Il loro fu un legame per la pelle. Al punto da programmare un futuro in comune. Insieme, si trasferirono a Parigi per fare l’università.
Nella metropoli il Nostro si trovò come a casa. Seguì le lezioni del filosofo Bergson, intrufolandosi, ben accetto, negli ambienti dell’avanguardia artistica. Conobbe Picasso, Braque, Apollinaire, Modigliani e, nei loro molteplici soggiorni parigini, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, il conterraneo Filippo Tommaso Marinetti.
Moammed, invece, dopo un periodo di euforia per la nuova esperienza, si incupì. La depressione lo portò al suicidio. Per l’amico italiano fu un colpo immenso. Rimuginò a lungo per trovare una ragione al gesto. Quando la intuì scrisse nel suo caratteristico stile secco: «Si chiamava Moammed Sceab... suicida perché non aveva più Patria. Amò la Francia e mutò nome. Fu Marcel, ma non era francese e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena del Corano, gustando un caffè... Riposa nel camposanto d’Ivry... E, forse, io solo so ancora che visse». I punti e le virgole sono aggiunti. Il Nostro, infatti, scriveva il più delle volte trascurando la punteggiatura. Questo Memento - una prosa che è quasi una lirica o una lirica in prosa, fate voi - gli sgorgò di getto solo anni dopo.
Nel frattempo, il giovanotto aveva lasciato la Francia per l’Italia. Acceso nazionalista, allo scoppio della Grande Guerra partì volontario. E fu sul fronte dell’Isonzo che il ricordo di Moammed si fece più insistente. Evocata dalle continue morti dei combattenti, anche la scomparsa dell’amico d’infanzia si riaffacciò prepotente. Ma, ben aldilà, fu l’intera tragedia collettiva a ispirarlo. Il Nostro si abituò a scrivere anche sotto le granate. Riuscì perfino a prendere appunti rannicchiato accanto al corpo senza vita di un commilitone. Annotò: «Un’intera nottata buttato accanto a un compagno massacrato, con la sua bocca digrignante volta al plenilunio... Non sono mai stato tanto attaccato alla vita». Raccogliendo episodi come questo tenne, tra prosa e poesia, il più intenso diario di guerra del primo conflitto mondiale. Lo dedicò poi parte a Papini e parte a Soffici, dandogli come sappiamo il titolo, assurdo e ingiustificato, di Allegria.
Dopo la pace di Versailles, tornò a Parigi dove, per sbarcare il lunario, lavorò alla nostra ambasciata e collaborò al Popolo d’Italia, il quotidiano di Mussolini. «Non era un corrispondente politico - scrisse di lui il Duce - e nemmeno un minuto raccoglitore di cronache francesi... I suoi articoli affrontavano problemi che sembravano trascurati. Si trattava di anticipazioni fatte da un nuovo punto di vista». Un giudizio lusinghiero su un inviato assai speciale. Dopo il matrimonio con Jeanne Dupoix, il Nostro tornò in Italia e, a corto di soldi, andò a abitare a Marino, sui Colli Albani, scendendo ogni giorno a Roma col trenino per prendere servizio all’ufficio stampa del ministero degli Esteri.
A 40 anni, tornò al cattolicesimo con una piena conversione e ebbe l’insperato colpo di fortuna di una cattedra di Italiano a San Paolo del Brasile. Qui, però, lo aspettava un nuovo lutto: la morte per appendicite del figlio Antonietto, di nove anni. Lo ricordò piangendo: «Tu ti spezzasti... Alzavi le braccia come ali e ridavi nascita al vento, correndo nel peso dell’aria immoto». Col fascismo agli sgoccioli, fu nominato Accademico d’Italia e professore all’università di Roma. Sottoposto, alla fine del secondo conflitto mondiale, a procedimento di epurazione, rischiò di perdere l’insegnamento. Fu il ministro dc all’Istruzione, Guido Gonnella, a difenderlo e a conservargli la cattedra.

Morì a 82 anni, non prima però di diventare un personaggio tv per la erre arrotolata alla francese con cui leggeva Amore, salute lucente, Morte, arido fiume e altre sue prose poetiche rimaste nella memoria di molti.
Chi era?

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