«Mi lascio»: un acuto sberleffo del mondo

Impermeabile lungo, parrucca giallo paglierino, un fiore da attaccare e staccare, un sacchetto di plastica. Non serve altro alla stralunata Giovanna Mori per dare anima al brioso pastiche linguistico di Mi lascio, monologo sull’amore scritto dalla stessa Mori insieme con Rosa Masciopinto e con la «complicità» di Jean-Claude Carrière, ben noto sceneggiatore francese che ci piace ricordare, tra le altre cose, per l’elaborazione drammaturgica del Mahabharata di Peter Brook. E non c’è dubbio che la tradizione d’oltralpe fa capolino tra le pieghe di questo sfogo esistenziale dove la scrittura, la recitazione, l’espressione mimica (assai curata) e vocale sono lontane anni luce da effetti di semplice psicologismo a tutto vantaggio di una freschezza circense e clownistica che sa tradursi in arguto sberleffo del mondo e dei sentimenti. Siamo nel perimetro di un cabaret «post-futurista» dove le parole smuovono abilmente la coscienza degli spettatori, inducendola a sorridere della morte, degli inganni dell’amore, della povertà, del tempo che fugge via, della solitudine, degli sfasci sociali e ambientali, delle separazioni da qualcuno o da qualcosa. Il tutto intervallato da canzoni e melodie che ricapitolano certi passaggi cruciali della recente storia del nostro costume e che sono funzionali a sottolineare ancora meglio i toni agrodolci e paradossali della pièce. La quale si regge principalmente sulla bravura della sua interprete: sguardo vispo e ammiccante, voce modulata su intonazioni diverse, passo deciso e a un tempo lieve, la Mori ci offre una bella prova e ci tira dentro questa sua non-storia odierna a furia di bizzarrie surreali, di scatti improvvisi, di lunghe disquisizioni sull’utilità di un sacchetto della spesa.

Su quell’oggetto-simbolo del consumismo e della frenesia odierni, cioè, che qui riacquista la sua dignità di contenitore atto ad ospitare qualcosa di autentico: amore, poesia, silenzio, dignità.
Fino a domenica 11. Info: 06/5898111.

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