nostro inviato a Terni
«Cè da impazzire a vivere fra queste quattro mura con laccusa daver ammazzato mia moglie incinta. Cè veramente da uscirci matti allidea che i miei due bambini siano stati strappati allaffetto dei parenti e rinchiusi in una casa-famiglia. Io sono innocente e Dio lo sa. Per lopinione pubblica, però, sono colpevole a prescindere, sulla base di meri indizi senza riscontri. Non chiedo di essere creduto, ma che almeno mi si dica, documentalmente, perché merito di marcire in galera. Tutto ciò è folle, profondamente ingiusto...».
Chi parla per la prima volta attraverso i legali da una cella per detenuti «sensibili» nel penitenziario di Terni è Roberto Spaccino, il «mostro di Marsciano». Luomo che sei mesi fa avrebbe prima picchiato a morte la consorte Barbara Cicioni allottavo mese di gravidanza, poi camuffato un furto, quindi simulato dolore e disperazione per sfuggire allarresto, si proclama innocente e vittima di obbrobri giudiziari. «Lo hanno condannato alloblio», si lascia sfuggire lavvocato Luca Gentili che col collega Michele Titoli ha raccolto il suo lungo sfogo. Spaccino urla la sua rabbia: «Combatto per i miei due bambini, lassassino è ancora fuori. Io non voglio criticare linchiesta, anzi nutro il massimo rispetto per gli investigatori. Ma mi trovo qui recluso perché pensano che abbia camuffato la scena del delitto, per i miei asseriti maltrattamenti a Barbara e perché lorario della morte, secondo il medico legale, sarebbe incompatibile con il mio racconto dei fatti. Bene. A sei mesi dalla morte di Barbara, ancora deve essere consegnata la perizia del Ris sulle impronte chiamata a comprovare le alterazioni della scena del crimine. Così come non è mai stata ultimata la perizia del medico legale, quella che mi incastra oltre ogni ragionevole dubbio. Sono dentro per indizi, e basta».
Spaccino parla dellomicidio di Barbara. «Dalle carte processuali emergono dettagli importanti ma poco seguiti: quella sera stessa un furto analogo è stato commesso in una villetta vicina. Nessuno, però, ha pensato a indagare in altre direzioni». Parla anche della violenta discussione con la moglie, quella sera maledetta. «Quella sera Barbara, che era molto gelosa, si era convinta che avessi appuntamento con qualche donna. Non era così, ma avevo difficoltà a convincerla. Non era la prima volta che me lo rinfacciava, e non era la prima volta che discutevamo animatamente. Siccome urlava forte, le chiesi di non farlo perché non mi andava che i ragazzi ci sentissero litigare. Solo quando lei ha esagerato le ho dato due colpi leggeri sul cuscino che si era messa sulla faccia. Non lho toccata, mai avrei potuto picchiarla. Era incinta. Le cose tra noi non andavano benissimo, ma da qui ad ucciderla ce ne passa. Quel che mi ha profondamente turbato - ammette il marito della vittima - è stata la lettera scritta dai miei genitori la sera prima del 15 giugno, giorno del mio interrogatorio, sollecitata ai miei cari dai carabinieri. Non ne sapevo nulla. Il pm appena mi vede, come prima domanda, mi chiede se avevo ricevuto la missiva, che era una sorta di invito alla confessione. Me la fa leggere e mi chiede di pensarci bene su. Ma io non avevo e non ho niente da confessare, quindi ho declinato linvito. Poi però...». Che è successo? «Il pubblico ministero mi ha prima chiesto se volevo vedere la foto di Barbara morta, e poi mi voleva sottoporre anche quella del feto, morto. Ho detto di no, mi sembrava una tortura.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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