RomaPer averlo come «apripista» della kermesse che si snoderà dall8 al 30 novembre nella capitale, il Roma Jazz Festival gli ha organizzato unanteprima allAuditorium Parco della Musica. Wayne Shorter ieri non ha deluso le aspettative. Le sue performance (in questo caso scortato da un trio deccezione: da Danilo Perez al pianoforte, John Patitucci al contrabasso e Brian Blade alla batteria) sono sempre un evento. E da entrambe le sponde dellAtlantico viene considerato non solo un padre nobile ma addirittura un guru, un filosofo dellimprovvisazione musicale. Artista nel pieno di una straordinaria maturità, fra i più grandi compositori nella storia della musica improvvisata, Shorter rappresenta una fra le più importanti personalità dei nostri tempi. La chimica travolgente del suo quartetto è documentata, tra laltro, dalle uscite discografiche più recenti: Footprints Live! (2002), Alegria (2003, Grammy Award come migliore disco strumentale jazz del 2004) e Beyond the sound barrier (2005).
Il jazz ha ancora un suo appeal, come recita il titolo della manifestazione romana?
«Direi proprio di sì. Oggi più che mai cè bisogno di sperimentazione».
La parola più abusata è contaminazione. Che differenza cè tra le elaborazioni contemporanee e i primi esperimenti di free jazz?
«Sarà pure una parola abusata, ma la necessità di sperimentare resta forte. Prima cera lurgenza di una maggiore libertà espressiva. Ora, invece, con la musica intendiamo sfidare linaspettato».
Addirittura!
«Quando mi esibisco cerco sempre di agevolare un percorso di autocoscienza in chi ascolta».
Sembra un antidoto al conformismo della musica pop.
«La gente istintivamente si aggrappa a ciò che conosce. Anzi che riconosce.
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