Non un’antologica di Dalí, ma una mostra su Dalí, tiene a specificare il curatore Vincenzo Trione, uno dei pochi in Italia che tenta di rileggere la storia dell’arte con parametri contemporanei. Quella che inaugurerà il 22 settembre al Palazzo Reale di Milano, dal titolo «Il sogno si avvicina», vuol essere dunque un’esposizione dal taglio molto particolare e problematico su quanto resta oggi del maestro catalano, dopo decenni di storiografia incerta e discutibile che lo hanno trasformato da genio assoluto del XX secolo a pittore commerciale, avida macchina da soldi a discapito dell’antica qualità pittorica, bizzoso personaggio da rotocalco e polemista reazionario (il suo libello I cornuti della vecchia arte moderna rimane un must).
Salvador Dalí ha inventato la figura dell’arista come star, molto prima del suo discepolo Andy Warhol. Dall’eleganza estrema ed estremista del look ai personaggi improbabili di cui amava circondarsi, dalle case in cui viveva, monumenti al kitsch assoluto, ai pettegolezzi sulla sua vita privata, ammesso ne avesse avuta una, visto che per lui tutto era pubblico, compreso il talamo nuziale che divideva con Gala. Dalí, ovvero la volontà di apparire, balzare all’altare delle cronache, senza per questo inficiare la lucidità nell’affrontare il lavoro. Alla sua corte sono passati diversi personaggi destinati a influenzare, in chiave ambigua, il gusto del ’900: dall’amico Buñuel al complice, forse innamorato, García Lorca, da David Bowie ad Alice Cooper fino alla sua musa riconosciuta, Amanda Lear. Dalí adorava sembrare frivolo e superficiale pur sapendo di essere pittore di rara qualità, forse il più bravo di tutti. Se vivesse oggi certamente vorrebbe comparire su un giornaletto di gossip e non su Artforum, sarebbe amico di Fabrizio Corona, non di un direttore di museo, si accompagnerebbe a celebrities e starlettes, non ai colleghi artisti, che ha sempre giudicato noiosi e infrequentabili.
Oltre al personaggio Dalí, la cui attualità è persino una forma di preveggenza, esiste un raffinatissimo pittore, un rabdomantico interprete della realtà trasfigurata nei sogni e nelle visioni stralunate delle composizioni. La mostra di Milano isola alcuni aspetti particolari di una storia cominciata negli anni ’20 e conclusasi negli ’80, quando le tele del Maestro esaltano la chiave concettuale, citazionista e autocitazionista, testimonianza dell’approdo pieno all’era postmoderna. Centro dell’originale percorso, secondo Trione, è il paesaggio, non soltanto uno spazio rappresentato, ma anche l’evocazione di mondi impossibili, tra il racconto della sua folle terra (l’Ampurdan, regione battuta da un incessante vento che rende la gente quantomeno lunatica) e fantasie inconsce sulle quali la psicanalisi può davvero sbizzarrirsi.
Fedele alla sistemazione della casa-museo di Figueres - per questa ragione l’allestimento è stato affidato a Oscar Tusquets Blanca, amico di Dalí, autore della sala Mae West e del celebre divano a bocca «Dalilips» - la mostra riprende il concetto di stanza in cui ogni unità rappresenta un viaggio nel percorso artistico con un inizio e una fine. Sulla falsariga del paesaggio si attraversa la memoria, dove il pittore spazia dentro la storia dell’arte coniugando antico a moderno, per ritornare all’interiorità surrealista e psicanalitica. Fanno un certo effetto quelle immagini, prodotte negli anni ’40, legate agli orrori della guerra e della bomba, in un linguaggio che è l’esatto contraltare del postcubismo di Picasso. Rispetto ai capolavori dominati dall’horror vacui e da un surplus di simbologie, il curatore sceglie i quadri più silenziosi, rinuncia all’esibizione del kitsch privilegiando paesaggi vuoti, inquadrature gelide in cui prevale il sentimento dell’attesa e l’incombente presenza del nulla.
Tutto ciò senza rinunciare ad alcuni coup de théâtre: la stanza dei desideri, dedicata all’attrice sex symbol Mae West, dove i visitatori potranno per la prima volta sedersi sul divano rosso, e il ciclo realizzato per il cartone animato Destino di Walt Disney nel ’46.
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