Il generale tedesco e alcune grandi famiglie milanesi. Furono loro, fra la fine del 44 e i primi mesi del 45, a salvare Herbert Von Karajan e a nasconderlo dalla furia del nazismo che non apprezzava più il direttore dorchestra ma cercava il disertore. Il celebre artista austriaco fu protetto da Hans Leyers, una delle massime autorità in città in quei mesi drammatici, e poi da un grappolo di casati blasonati: i Crespi, anzitutto, i Borletti, i Mozzoni, in una gara di solidarietà rimasta inedita fino a oggi. È la tesi sostenuta in un libro di imminente pubblicazione da Klaus Riehle, uno studioso, non uno storico di professione, che ha raccolto e incrociato le verità di due testimoni oggi scomparsi: Aga Hruska, dentista di fama leggendaria, vicino a molti potenti, dai Savoia ai papi, ma con studio e ottime entrature anche sotto la Madonnina, e Theodor Saevecke, il capo della Gestapo a Milano nel 44-45. «Organizzò tutto Leyers», hanno ripetuto i due nelle lunghe conversazioni con Riehle. «La guerra si avviava alla conclusione prosegue Riehle , un personaggio come Leyers, amante della bella vita più che della divisa e dellideologia e in buoni rapporti con la nomenklatura milanese, pensava già a mettere il proprio futuro in cassaforte». Così quella strana alleanza realizzò il salvataggio di uno dei miti del Novecento.
La storia raccontata da Riehle comincia con la fuga da Berlino: «Karajan arrivò a Milano nel novembre 44 insieme alla seconda moglie, la bellissima Anita, con un volo militare da Berlino». Come mai? I ricordi di Hruska e Saevecke concordano: Karajan aveva ricevuto lordine di arruolarsi e in particolare era stato assegnato al Sudstern, il battaglione propagandistico composto da intellettuali, giornalisti, scrittori. «Karajan - riprende Riehle si confidò in quei mesi del 45 con Hruska che conosceva da molti anni: Sono scappato da Berlino in Italia per due ragioni. Perché la guerra sta per finire e io ho una tessera del partito nazista con uno dei numeri più vecchi; e poi perché ho disertato. Infatti avevo ricevuto lordine di entrare nel Sudstern». Invece a entrare in azione è Hans Leyers che mette in salvo il maestro dal fanatismo del regime, lo trasferisce a Milano e da qui nella splendida cornice di Villa dEste sul lago di Como.
Nelle conversazioni con Franz Endler - raccolte nel libro La mia vita, Pantheon edizioni Karajan, che sugli anni della guerra è sempre stato vaghissimo e non ha mai voluto chiarire fino in fondo i propri spostamenti, se la cava con un ringraziamento a un non meglio precisato generale che gli salvò la vita, perché decise di non rispedirlo a Berlino: «Dovevo entrare nellesercito e dovetti presentarmi al generale. Egli mi informò che aveva ricevuto disposizioni di farmi tornare a Berlino... mi comunicò che avrebbe dovuto trovare per me posto in un aereo». Ma quellaereo non partì mai. «Forse nel 1945 mi salvò la vita».
Proprio in quelle settimane, precisamente a febbraio 45, Theodor Saevecke, laltro protagonista del libro di Riehle, frequenta a Milano il gabinetto dentistico di Aga Hruska e a lui chiede notizie del fuggiasco: «Lei ha mai sentito nominare il maestro Von Karajan? Pare sia a Milano, è un disertore, ho visto io il telegramma». Un telegramma oggi introvabile, ma che, secondo quello che ha riferito Saevecke a Riehle, era assai breve ed esplicito: Herbert Von Karajan è un disertore. Anche Saevecke era un personaggio complesso, quasi a due facce: responsabile del terribile eccidio di quindici milanesi antifascisti in Piazzale Loreto, azione che gli costerà nel 99 lergastolo inflitto dal tribunale militare di Torino, ma anche protagonista dellevasione dal carcere di San Vittore di Indro Montanelli e della liberazione di Ferruccio Parri. Insomma, un uomo sottile, capace di stare al mondo, come dimostra il seguito: dopo la guerra, Saevecke scalerà tutti i gradi della polizia tedesca fino a diventarne il numero due. A distanza di moltissimi anni, ormai anziano e vicino alla morte, Saevecke confermerà tutto a Riehle che è andato a trovarlo: «Vidi io il telegramma».
«Non fu un gesto di ribellione al nazismo - aggiunge ora Riehle che ha lavorato in pieno accordo con la Fondazione Karajan -, è che la partecipazione di Karajan al nazismo fu formale. O poco più. La tessera gli serviva per dirigere: per lui contava solo larte ed eventualmente la possibilità di impugnare la bacchetta davanti al popolo. Per il resto Karajan non sapeva nulla di politica. Pensava a tenersi in forma, a sciare, ad andare in barca». Forse un personaggio antipatico, non un fanatico, compromesso come lo erano quasi tutti allepoca. A sentire Riehle non lavorò assolutamente per lSd, il famigerato servizio segreto delle Ss, come pure si è scritto. Semmai aveva paura della resa dei conti che si sarebbe scatenata alla fine del conflitto.
Leyers porta Karajan sul lago di Como: «Qui rimase per una settimana o poco più. A Villa dEste entrò in contatto con le grandi famiglie milanesi, in particolare con i Crespi, industriali cotonieri ed editori del Corriere della Sera, il quotidiano che aveva magnificato il talento del giovane direttore austriaco, ma che in quel momento era diretto da un giornalista di lungo corso, espressione del fascismo più ortodosso, Ermanno Amicucci». Non importa: i Crespi stendono a proprio rischio e pericolo una passatoia rossa sotto i piedi del maestro. Unica accortezza, agiscono con la massima discrezione, quasi in segreto. «In particolare Giuseppina, la moglie di Aldo Crespi, fu affascinata da quelluomo appassionato, bello, riverito come un dio anche se di fatto solo un fuggiasco, povero in canna, senza alcuna certezza.
Stefano Zurlo
(1. Continua)
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