«Due chiacchiere magari, ma qui di base si lavora». Esordisce così la signora Corinna Riccò quando entro nel suo negozio. E’ proprietaria della merceria in via Bellotti 1, dalle parti di Porta Venezia a Milano (tel. 02-29519831). Schietta, sincera e appassionata, nel suo piccolo e curatissimo spazio che da più di sessant’anni vende articoli di merceria, la sciura è parte di una Milano che è «la città centrale, la città vera, quella che riassume tutti i drammi, le disperazioni, le speranze, le luci e le ombre dell’Italia» come definì Giovanni Testori il capoluogo lombardo in una famosa intervista per la Rai.
Una Milano che esiste ancora, «città tenera, potente, dolce», continua Testori, «una città lavorativa, piena di voglia di costruire. Però costruire in nome di una collettività storica e di una alterità metafisica religiosa». Riassumendo, vale il famoso detto che anche Testori ricorda in quest’intervista: il «milanes col coer in man», intendendo con ciò «questa coesistenza tra ragioni dell’anima e ragioni della società». C’è ancora questa Milano. Anche nel 2012, sparsa tra le vie della città, a volte difficile da trovare o da riconoscere, eppure c’è. E la fierezza e la cura per il lavoro che la sciura Riccò dichiara e dimostra ne è una prima, lampante testimonianza: «Io ho fatto un corso di merceologia, ho fatto un esame! – spiega subito in modo animato e partecipe -. C’è gente che non ne sa un tubo, che non ha idea di ciò che vende. Non si può aprire un negozio senza qualifica».
E il suo spazio è super qualificato: bottoni di ogni tipo e modello, set di cucito, per non parlare delle splendide fibbie per cinture autentiche degli anni ’40, i guanti di chashmere, golfini di pura lana, biancheria intima e qualche ulteriore capo di abbigliamento (i golf costano sui 60-120 euro, le gonne sui 50-70. Accessori per cucire, pizzi, fili e sete varie hanno poco prezzo, anche uno, due, tre euro. La signors Riccò vende anche cinture in paiettes fatte a mano dalla figlia Alessandra, che ha 40 anni, e fa svolgere piccoli lavori di sartoria su commissione come orli ai pantaloni, cuciture, cambio di cerniere o di bottoni). «La merceria comporta tante piccole sciocchezze – continua -. ma per qualsiasi cosa ci vuole serietà. Io devo saper dare sempre una risposta precisa al cliente: se qualcuno mi chiede un golf di alpaca devo sapere cos’è!».
Insomma, il lavoro come una vera e propria risorsa: «La mia licenza è la mia liquidazione, l’ho avuta nel 1978. E mia madre ha aperto la merceria nel 1945. Quindi quando c’era la Guerra lei era già qui. D’allora è cambiato tutto». Tira fuori da un cassetto una fotografia in bianco e nero e mi indica i dettagli: «La farmacia c’era già, ma molte cose sono diverse». «Poi si rabbuia: «La mia Milano non la riconosco più».
Una città sempre più sregolata, secondo la signora Corinna, che ha perso di rigore e di serietà: «Le distanze! Se qui c’è una merceria, non possono aprirne un’altra negli immediati dintorni. E’ vietato! Invece adesso danno licenze a iosa, a chiunque». E volano ingiurie: contro i centri estetici, prima di tutto, che «diventano piccole case di tolleranza. In cui però mancano completamente i controlli. Un tempo le case chiuse erano certamente più sicure. Era sempre presente un medico, ad esempio. Oggi le aprono i cinesi, che se ne fregano delle leggi e della pulizia! Mancano controlli e c’è troppa libertà».
Meglio il buon tempo antico, insomma. «Bè, io sono qui soprattutto perché non ho l’affitto da pagare. Poi chiaro, ho clienti fissi e nel mio negozio vendo le cose che scelgo io, sempre di garanzia.
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