«Che bolgia la giustizia, lascio la toga»

La decisione di lasciare l’avvocatura l’ha presa in un amen. Un suo collega aveva chiesto al giudice di avvicinare l’udienza fissata di lì a tre anni. Il magistrato ci ha pensato su e ha letto la nuova data: stesso anno, stesso mese, stesso giorno, ma un quarto d’ora prima. «Un quarto d’ora su tre anni, capisce?», dice ora Roberto Minardi de Michetti, seduto al tavolo del suo studio.
Dottor Minardi de Michetti, ha cambiato idea?
«Neanche per sogno. Sono stufo, dopo trent’anni di battaglie e mischie quotidiane, di stare dentro questa catena di montaggio dell’approssimazione, della trasandatezza, della sciatteria. La giustizia dovrebbe essere altro».
Ce l’ha con i giudici?
«Non voglio generalizzare in modo stupido. Le persone di prim’ordine ci sono e non sono poche: le riconosco fra i giudici, fra gli avvocati, fra il personale di cancelleria. Fra i magistrati milanesi stimo particolarmente Ferdinando Pomarici, tecnico preparato e uomo coraggioso».
E allora?
«Vede, io ormai ho superato i sessant’anni e non tollero più situazioni come quella appena descritta. La cafonaggine, l’arroganza, le cause un tanto al chilo. Recentemente un giudice ha partorito una sentenza che sembra una barzelletta ed è insulto all’intelligenza».
Che cosa ha stabilito?
«Ha confuso fra le diverse parti tecniche: opponente, opposto, attore, convenuto».
Risultato?
«Ha condannato la parte vittoriosa a risarcire chi aveva perso».
C’è rimasto male?
«Non ne ho avuto il tempo. Mi è subito capitata un’altra storia deprimente: un giudice ha chiesto alle parti di intervenire personalmente all’udienza successiva».
E dov’è lo scandalo?
«Sa cosa è successo quel giorno? Il giudice ha guardato quegli sventurati come un marziano, dicendo che era del tutto inutile la loro presenza e ha chiesto chi avesse detto loro di venire in tribunale. Capisce?».
Minardi de Michetti allarga le braccia sconsolato. L’avvocato ha l’aria di chi crede ostinatamente che qualche granello di passione e di intelligenza debba insaporire la professione: non si può lavorare senza un pizzico, un pizzico almeno, di divertimento.
«Io ho smarrito la gioia che avrebbe dovuto accompagnarmi in aula. Non la trovo più. Sono amareggiato: ho visto un giudice, vestito fra l’altro come un bagnino, gridare come un matto davanti ad una banale richiesta di spiegazioni di un mio collega. Poi, non contento, il magistrato ha fatto a pezzi il verbale e l’ha gettato in un cestino, infine, in pieno delirio isterico, ha gridato a tutti i presenti di lasciare l’aula. Manco fossimo un branco di animali. Mi dispiace, io non m’inchino a questo andazzo. Gli altri, quelli che restano, facciano come credono. Io tolgo il disturbo».
Giorno dopo giorno il sorriso di Minardi de Michetti si è appannato. Ma l’occhio era rimasto quello di tanti anni prima. L’occhio voleva stupirsi, cercava l’equilibrio del rigore e forse anche una cifra estetica. Non c’è era più niente. E quel quarto d’ora ha azzerato il tempo.

Roberto Minardi de Michetti ha raccontato la sua sofferenza in una lettera al nostro direttore Mario Giordano, ora, senza tentennamenti, conferma: «Farò altro. Farò il consulente. Andrò al cinema, a teatro, al mare. Io, e lo dico senza snobismo, non voglio più incupirmi in quella bolgia chiamata giustizia».

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