Città a misura di bici? Il Comune paga il conto ai ciclisti (mai contenti)

Città a misura di bici? Il Comune paga il conto ai ciclisti (mai contenti)

di Carlo Maria Lomartire
A una sinistra senza idee, come quella arancione che governa Milano, non resta che aggrapparsi all'ideologia della bicicletta. L'attenzione che la giunta di Giuliano Pisapia dedica fin dal suo debutto alle due ruote ha ormai qualcosa di ossessivo, di maniacale. Evidentemente in conseguenza della convinzione che i problemi del traffico e dell'inquinamento della nostra città si risolvono mandando più gente possibile a pedalare. Ma le cose non stanno così, anche se commentatori (e soprattutto commentatrici) di giornaloni fiancheggiatori fanno di tutto per sostenere il sindaco e l'assessore alla mobilità Pierfrancesco Maran in quest'opera di banalizzazione e semplificazione di un problema complesso. La storia è nota: anziché incrementare il trasporto pubblico e incentivarne l'uso, questa giunta ha aumentato del 50% il prezzo del biglietto dell'Atm ed ha mandato in malora progetti di nuove linee del metrò, come la linea 4, ritardandole altri come la linea 5, per non parlare delle decine di parcheggi sotterranei cancellati per ubbidire ai vari comitati, lasciando così per strada migliaia di auto, in divieto di sosta, in seconda o terza fila, sui marciapiede e sulle aiuole. E questo perché la soluzione di tutto è la bici, quelle pubbliche messe a disposizione dal Comune e quelle private, destinate, prima o poi, ad essere rubate. Ma pensate che perciò il lamentoso ciclomane sia contento? Niente affatto, continua a pretendere piste ciclabili ovunque, sentendosi autorizzato dalla loro rumorosamente protestata mancanza a zigzagare fra i pedoni sul marciapiede. Salvo poi lamentarsi se le piste non gliele fanno dove e come vuole lui: in viale Tunisia sì ma forse no, con cordolo o senza cordolo, che non costi più di tanto in modo da poterne fare anche altre. Sono polemiche di questi giorni, con le varie ciclo-fazioni schierate da una parte o dall'altra. Con chi prende audacemente posizione scoprendo che «non è la pista ciclabile a fare il ciclista» o che in realtà la bici si usa di più nelle città piccole e in pianura (ma va!), con chi contesta anche l'alternativa del car sharing perché - ohibò! - «quasi tutte queste macchine libere di girare ovunque vanno a benzina e perciò inquinano». Il fatto è che questa querula lobby del pedale si comporta come un bambino viziato che chiede sempre di più e non è mai soddisfatto. Ed era inevitabile, giacché i ciclomani sono stati effettivamente viziati e coccolati dalla giunta arancione - di cui fin dall'inizio furono accaniti supporter - tanto da far credere loro di essere i salvatori della salute dei milanesi e i portatori di un nuovo verbo della mobilità che riscatta tutti noi dalla schiavitù delle quattro ruote. Il fatto è che sia loro sia i ciclo-ideologi arancione non hanno capito che Milano non è Ferrara, che la maggior parte dei milanesi non svolge le attività quotidiane nella Cerchia dei Navigli, come alcune di quelle blasonate commentatrici: non si limitano, cioè, a spostarsi da corso Magenta in via Solferino (per scrivere sulla mancanza di piste ciclabili) e poi spingersi fino da Cova per un tè o in via della Spiga per comprare un paio di scarpe. No, il milanese medio percorre ogni giorno per lavoro chilometri, spesso decine di chilometri. E magari è costretto a diversi spostamenti, non nel centro storico, la Città Proibita, ma nell'area metropolitana e oltre; col freddo d'inverno, con la pioggia d'autunno, con la canicola afosa d'estate.

Chi ha il coraggio di chiedergli di fare questa vita in bicicletta? Anche lui, il milanese medio (che, come chi scrive, ama la bici ma non ne fa un feticcio ideologico) farebbe volentieri a meno dell'automobile: basterebbe che gli dessero qualche tram o qualche metropolitana in più.

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