Condanna di 'ndrangheta: "Sgarra, deve morire"

Condanna di 'ndrangheta: "Sgarra, deve morire"

Dissero: «Il nostro sangue ce lo dobbiamo bere noi. Non lo possiamo dare a nessuno». Intendevano che ad ammazzare Cataldo Aloisio dovevano essere loro, i suoi parenti, perché solo così il marchio d'infamia non si sarebbe riversato su di loro. D'infamie, al condannato a morte ne venivano rimproverate più d'una: di essere una spia dei carabinieri, di picchiare e tradire la moglie (e che moglie: la figlia del boss), di voler vendicare uno zio ammazzato in Calabria. Ma alla fine la colpa più grave, quella che lo trasformò in un cadavere buttato in un campo, fu il suo carattere. Perché Aloisio non aveva paura di nessuno. Ed era, come si legge in un'intercettazione, «un coltello che taglia da tutte e due le parti»: uno che non si sapeva come prendere.

Così, la sera del 26 settembre 2008, a Legnano, gli spararono in testa. Per undici anni, la sua morte è stata un mistero a metà: perché il contesto era chiaro, il mondo dei calabresi che hanno colonizzato le terre tra Milano e Varese, impiantando le «locali» della 'ndrangheta, i loro riti tribali, i loro affari, le loro regole. Cataldo era uno di loro, ed era lì che si doveva cercare. Ma chi, e quale movente, non si è capito a lungo. Finché a Catanzaro non si è pentito il fratello di quello che gli aveva sparato. E ha raccontato questa storia di sangue e di mafia ambientata nella Lombardia del terzo millennio.

Li arrestano ieri mattina i carabinieri del Ros, che hanno incrociato con tenacia tracce che a undici anni dai fatti erano a volte labili, ma erano indispensabili per trovare riscontro alle parole del pentito. I due mandanti, i capi dei clan di Cirò, erano già in galera; ma i due esecutori erano liberi, e chissà se a quel delitto lontano gli capitava ancora di pensare. I due sicari sono Vincenzo Farao, che del morto era cognato, e Vincenzo Rispoli, che era cugino di sua moglie, arrivati ad eseguire un dovere al quale non potevano sottrarsi.

Rho, Legnano, Solbiate Olona: si muove nel cuore della Lombardia felix la tragedia di Cataldo Aloisio, picciotto d'onore irrequieto e indisciplinato. L'ultima volta che a Malpensa aveva visto lo sbirro con cui se la cantava, un maggiore dei carabinieri di Crotone, Cataldo era stato esplicito: «Questi sono gente di merda, mi dispiace che ho moglie e due figli, altrimenti prendevo il mitra e li ammazzavo tutti quanti, prima il suocero e poi tutti gli altri». Il suocero: Giuseppe Farao, il capo storico della famiglia di Cirò Marina e quindi della sua filiale lombarda, la «locale» di Lonate Pozzolo.

Era stato Farao, un anno prima, a fare ammazzare suo zio, anch'esso uomo d'onore ma accusato di fare la cresta sulla «bacinella», i soldi per i detenuti e per le vedove. La cosa ha aspetti tragicomici. Cataldo aveva saputo che stavano per fare la pelle allo zio, era corso ad avvisarlo; quello non solo non gli aveva creduto ma era andato a riferire la cosa proprio a quelli che si preparavano ad ucciderlo. Di lì a poco, lo ammazzarono. Ma per avere messo lo zio sull'avviso, Cataldo era finito sulla lista di quelli che parlano troppo, rafforzando le voci - che già giravano - sui suoi legami oltremisura amichevoli con i carabinieri. E poi c'era la faccenda della moglie. La bella Elena Farao, figlia del boss Giuseppe, che se ne sta all'ergastolo al 41 bis nel carcere di Tolmezzo, ma da lì continua a comandare e a fare paura. Cataldo Aloisio, a suo modo, le vuole bene, e nella sua ultima chiacchierata con il maggiore dei carabinieri dice che «è tanto una brava ragazza». Però è tutt'altro che un marito esemplare. Le fa corna a ripetizione, pare che le metta anche le mani addosso. E fin qua magari la farebbe franca, perché in privato gli 'ndranghetisti sono meno correct di come vorrebbe il loro codice d'onore. Ma Aloisio va più in là: medita anche di piantarla, e questo proprio non è ammesso. «Lasciando la figlia di Farao non puoi pensare di passarla liscia», spiega al pm Ilda Boccassini un altro pentito, Antonio Belnome. E quest'altra colpa si aggiunge e si mischia nel groviglio che rende Aloisio sempre più estraneo, sempre più intollerabile al clan.

Così, condanna a morte. «Tuo cognato è nu pisciaturo di merda, ha una brutta testa, vuole toccare a qualcuno di noi», spiega a Farao junior il reggente di Cirò, Cataldo Marincola. Per eseguire, ci vogliono due parenti. Uno è Vincenzo Farao, il fratello di sua moglie Elena, che sale apposta della Calabria; l'altro è Vincenzo Rispoli, cugino di Elena, che vive da tempo al nord e regge la «locale» di Legnano. A Farao l'idea di ammazzare il cognato non va giù, «devo salire a Milano, questa cosa non mi fa dormire la notte», confida al fratello che poi lo tradirà, qualche giorno prima di partire per la missione.

I due sicari si danno appuntamento con la vittima designata. Cataldo Aloisio qualcosa forse sospetta perché si muove in modo strano, cambia programma in continuazione, a volte stacca il cellulare, ad un amico dice che deve portare una «ambasciata» a qualcuno: ma poi, dopo avere preso un aperitivo, sale senza patemi in auto con i due cugini. Si siede davanti, accanto al guidatore, nel posto più comodo per essere ucciso.

Il corpo lo buttano davanti al cimitero di San Giorgio di Legnano, dove è sepolto

Carmine Novella, il padrino ammazzato tre mesi prima a San Vittore Olona: non c'entra niente, lo fanno solo per fare casino, depistare, incrociare verità e menzogna nel viluppo di segreti della 'ndrangheta Made in Lombardia.

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