Cronaca locale

Diffidenza e filo spinato: nel fortino dei musulmani

In via Maderna la sede di una discussa organizzazione: "Gli attentati di Parigi? Parlate solo dei morti francesi"

Diffidenza e filo spinato: nel fortino dei musulmani

All'esterno sembra solo un fabbricato in costruzione abbandonato prima del termine dei lavori. E magari occupato da qualche clochard in cerca di un tetto: dalle finestre senza infissi, al di là dei mattoni vivi ancora non intonacati, s'intravedono sedie e materassi accatastati. Via Bruno Maderna numero 15 è una traversina defilata nella periferia est della città dov'è impossile capitare per caso. Eppure di venerdì mattina non sono in pochi a varcare il cancello, oltrepassando il muro sormontato da filo spinato, come nelle aree militari. Qui dentro c'è la sede milanese di Millî Görüs, organizzazione islamica turca (l'espressione vuol dire «Punto di vista nazionale») che a novembre 2014 gli Emirati Arabi hanno inserito in una black list insieme a Isis, Al Qaida, Boko Haram. Nel cortile non arrivano alla spicciolata solo turchi, ma anche nordafricani: si sciacquano la faccia in uno stanzino accanto al qual c'è la casa del «responsabile», Ahmet Aydin, poi entrano in uno scantinato cui si accede da un'altra porta del cortile. La palazzina è in effetti costruita solo per metà, i lavori sono rimasti fermi dal marzo 2013 perché mancano i permessi per trasformarlo in luogo di culto. Loro, però, pregano lo stesso. «Non puoi entrare» - mi dice Abdullah, che vive in Italia da tre anni dopo altri 15 in Romania - «qui dentro solo uomini». Anche se indosso abiti larghi e mi copro il capo, niente.

Difficile avere un confronto con qualcuno: «Non parlo italiano», ripetono. Francese? Inglese? Spagnolo? Niente. «Solo turco», rispondono. «Fratello, non parlare», dice minaccioso uno di loro ad Abdullah. A casa del responsabile Aydin c'è una donna, sua moglie: apre giusto una fessura della porta, quanto basta per intravedere la testolina dai capelli ricci della figlia, ma anche lei non ne vuole sapere. Dopo molte insistenze Abdullah, che nel frattempo è sceso nello scantinato e poi ritornato fuori in cortile per fare alcune telefonate al cellulare, scambia qualche parola. «Gli attentati a Parigi? Vi occupate solo di quelli, e della Turchia perché non ne scrivete? E poi i colpevoli mica erano cittadini turchi. Erano cittadini francesi!». L'obiezione è sempre quella, ma anche la contro obiezione è facile: gli attentati vengono fatti in nome dell'Islam. «Allora siccome ci sono degli islamici che sono terroristi, vuol dire che tutti gli islamici sono terroristi?», ribatte Abdullah. È nervoso, alla fine chiama il responsabile Amhet al cellulare e me lo passa. «Cosa penso degli attentati in Francia? Quello che ne pensano gli altri....noi siamo contro, infatti saremo domani (oggi, ndr) alla manifestazione in piazza San Babila», spiega Aydin.

E del minuto di silenzio coperto dalle grida «Allah Akbar» durante la partita Italia-Grecia? «Non ne so nulla, se me lo dice lei ci credo, purtroppo c'è chi fa terrorismo in nome di Allah». Insisto per entrare «ma adesso c'è la preghiera, se me lo dice e viene un altro giorno la accompagno». Mi arrendo, uscendo incrocio un altro fedele che sta per entrare: parcheggia una Bmw bella grossa, tirata a lucido. Gli chiedo come si chiami ma non vuole dirmelo. Però l'italiano lo parla. «Da quanto tempo vive qui?». «Due mesi», risponde. Faccio notare che deve avere un buon lavoro per potersi permettere subito un'auto del genere. «Non è mia, me l'ha prestata un amico», replica.

Credergli è difficile.

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