E se non ci fosse più niente da scoprire? Se nei famosi armadi dei servizi segreti più o meno deviati non ci fosse nulla di davvero utile? Se la storia della strage di piazza Fontana fosse quella che raccontano già oggi gli atti processuali? É una verità, si badi, tutt'altro che banale o consolatoria. Colpe e complicità sono indicati con chiarezza nelle carte che le indagini del giudice istruttore Guido Salvini e poi del pm Grazia Pradella hanno messo a disposizione di chiunque avesse la buona volontà di studiare. La matrice fascista della strage; il ruolo cruciale della cellula padovana di Ordine Nuovo; la contiguità degli autori con ambienti di intelligence e militari; i condizionamenti subiti dalle indagini.
Eppure a ogni anniversario riparte il coro di quelli che invocano più verità e più giustizia, ed evocano chissà quali scenari inesplorati. Più giustizia di così non si può fare, perché tutto è già passato agli esami delle Corti d'assise e della Cassazione. E più verità di quanta è emersa non può emergere, non solo perché ormai sono passati quarantacinque anni, e i protagonisti di quella stagione sono morti o rimbambiti; ma anche perché l'unica verità ulteriore ipotizzata dagli eterni insoddisfatti è quella di una responsabilità diretta dei vertici politici dello Stato, «mano fascista, regia democristiana», come recitavano gli slogan di allora: responsabilità di cui mai, nel corso di alcuna indagine, è emersa la più piccola traccia. Ora il presidente del Consiglio Matteo Renzi annuncia che verranno desecretati i materiali dei servizi segreti relativi alle stragi. Ma come reagiranno, gli irriducibili della «verità negata», se da quelle carte anziché rivelazioni sensazionali uscirà - come è già accaduto per il caso di Ustica - la solita paccottiglia di ritagli stampa e veline inconcludenti di cui i nostri «servizi» sono stati per decenni infaticabili produttori?
Superstiti, vedove e orfani hanno ovviamente libertà di parola, anche più di quanta ne spetti al comune cittadino: ma anche per loro esistono dei limiti. Ieri prende la parola Claudia Pinelli, figlia di Giuseppe, il ferroviere anarchico che volò da una finestra della questura tre giorni dopo la strage. La Pinelli dice che dagli armadi dei servizi segreti sono sparite le «veline» che riguardavano suo padre. Cosa ci fosse esattamente in quelle carte non si sa. Magari c'era finita, chissà come, la verità sulla morte del ferroviere. O magari riguardavano i rapporti pregressi tra Pinelli e l'uomo che è stato accusato pubblicamente di averlo ammazzato, e che questo sospetto ha pagato con la vita, il commissario Luigi Calabresi: che di Pinelli era quasi amico, e che da lui ricevette in regalo proprio il libro da cui è tratta la poesia che sta sulla tomba di Pinelli. Nell'incertezza, la figlia di Pinelli propende per la prima ipotesi («Hanno fatto sparire tutto. Non si vuole che si sappia cosa sia avvenuto quella notte»), e questo è lecito: anche se la fonte della verità pare che sia il regista Marco Tullio Giordana, autore di un film risultato incomprensibile anche ai più accaniti pistaroli. Meno lecito è che Silvia Pinelli accusi di essersi portato nella tomba segreti inconfessabili sulla morte di Pinelli un magistrato che nessuno, in vita, ha mai accusato di acquiescenza verso i poteri occulti: Gerardo D'Ambrosio. D'Ambrosio condusse l'indagine su Pinelli, e concluse che non era stato assassinato.
«Malore attivo», scrisse nel provvedimento di archiviazione. Dire, come fa oggi Silvia Pinelli, che «D'Ambrosio è morto e si è portato quello che sapeva con sé» è un insulto a un uomo che non è più in condizione di replicare.
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