Appena pochi giorni fa, sui campi gara dello splendido country club nel verde della Brianza si affrontavano centinaia di cavalli impegnati nelle gare. Da ieri, le Scuderie della Malaspina, uno dei più importanti e lussuosi circoli ippici della Lombardia - foresteria e piscina compresi - sono sotto sequestro della magistratura: erano le scuderie di Ornago il punto di approdo del colossale dissesto di un imprenditore calabrese. Giuseppe Malaspina, nato sessantun anni fa a Montebello Ionico e casa nel cuore di Milano, in via Vivaio, è in carcere insieme ad otto complici; sua moglie Adriana Foti, anima e cuore delle Scuderie della Malaspina, è agli arresti domiciliari come altri venti indagati. E le carte dell'inchiesta della Procura di Monza raccontano con cruda eloquenza il dissolvimento criminale di una impresa economica.
Malaspina, lo riconosce anche il giudice che ne decide l'arresto, è in qualche modo una vittima della crisi economica. Costruttore vero, alacre, che in decenni di lavoro ha realizzato numerosi insediamenti. Ma che sotto i colpi della crisi sembra perdere la bussola. E a partire dal 2010 dà il via ad un vortice inesauribile di fatture false, spostando beni e quattrini da una società all'altra, da ditte reali a scatole vuote e viceversa, per fregare fisco e creditori. Al suo servizio, un esercito di prestanomi ma anche di professionisti: avvocati, commercialisti, consulenti, tutti impegnati a dare una parvenza di legalità alle idee «fantasiose e folli» del capo. E finiti anche loro in cella o ai domiciliari.
Tra i beni spostati di qua e di là a prezzi talvolta surreali ci sono anche, insieme alla società che possiede le scuderie, due alberghi, entrati anni fa nel patrimonio di Malaspina e anch'essi finiti nel valzer di cessioni e spostamenti fittizi. Uno è il Gritti di Milano, piazza Santa Maria Beltrade, a due passi dal Duomo, la cui società viene venduta a un certo punto per la risibile somma di 51mila euro; l'altro addirittura il Ca' Sagredo di Venezia, affacciato sul Canal Grande.
Malaspina sapeva da tempo di essere nel mirino della Guardia di finanza. Il 4 novembre del 2015 le intercettazioni avevano rivelato che i suoi collaboratori si erano ritrovati in ufficio per fare sparire tutta la documentazione compromettente, centinaia di faldoni accumulati in cortile e pronti per essere caricati da una ruspa su un cassonetto. Quel giorno Malaspina non c'era: «Il capo è scappato, cazzo», dicevano i suoi. E c'era chi lo dava già a Cuba, o in un altro posto a estradizione difficile. Il lavoro della ruspa venne fermato. Da quelle carte, è partita la fase finale della ricostruzione. Il giudice preliminare respinge la richiesta della Procura di Monza di incriminare tutti anche per associazione a delinquere: non era una banda organizzata, dice il giudice, ma solo gente di volta in volta pronta a mettere le sue competenze al servizio del «capo». Come Fabiola Sclapari, giovane avvocatessa monzese; o il suo collega Gerardo Perillo, 68 anni, ex magistrato, già pretore dirigente a Desio e giudice penale a Milano, passato all'avvocatura. E poi l'ingegnere Cesare Croce, o i commercialisti Antonio Ricchiuto, Giorgio Comi e Salvatore Tamborino, tutti impegnati a dare apparenza legale ai pasticci del capo.
«Lui ha questo senso di proprietà al di fuori dei limiti della decenza... non abbiamo un rogito da mesi, tutti quelli che facciamo sono porcate sue interne», dirà uno di loro in una intercettazione. Ma intanto eseguivano.
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