«Il Curvo, lo Storto e il Pirellone sono tre bravi cow-boy» verrebbe da canticchiare ricordando un vecchio motivetto infantile. Il sapore yankee è insito in questi tre grattacieli milanesi che come le pistole del far west puntano la mira verso le nuvole per innalzare il tetto alla volta celeste. «Milano guarda in alto. 50 anni di grattacieli nel capoluogo lombardo» è il volume di Massimo Beltrame, MilanoExpo Edizioni, presentato oggi alle 18.30 nello Spazio Eventi Mondadori di piazza Duomo.
Duecento e trentadue metri: a tale quota arriva la Torre Unicredit, il punto più verticale di Milano, d'Italia e uno dei primi dieci d'Europa. Un bel salto da quel 1923 quando l'architetto Mario Borgato progetta in stile déco, guardando oltreoceano, le due Torri Gemelle di piazza Piemonte, con i loro 38 metri d'altezza gli edifici più svettanti della città per un decennio, che fanno da quinta teatrale nella piazza con la somiglianza non perfetta: sono chiamate Gemelle ma le Torri differiscono nelle proporzioni e nelle forme.
C'è voluto un secolo per salire di quei duecento metri, un secolo che è passato dalla Torre Rasini di corso Venezia, 45 metri, e poi la Torre Snia - Viscosa, 59,30 metri, la Torre Locatelli, 67 metri, per ben tredici anni il limite più elevato, un record battutto solo dal Grattacielo Pirelli che sarà la vetta di Milano per ben cinquant'anni. In mezzo scoppia la Seconda Grande Guerra che, radendo al suolo il 25% degli alloggi cittadini, spinge alla redazione del piano regolatore del 1953, la carta che sancisce il passaggio dall'architettura moderna a quella post - moderna. Con un unica, scandalistica, eccezione: la Torre Velasca.
Disegnata da Ernesto Nathan Rogers, la Velasca, alta 106 metri, spunta quasi contemporaneamente al Pirelli di Giò Ponti, di ventun metri più alto, ma i due «moloch» non fanno discutere quanto per il primato d'altezza, quanto per la loro differenza di stile. Edificio dal tratto molto personale, che coniuga una mole poderosa con una leggerezza altera, debordante, la Velasca è l'opposto del Pirellone, «albero» asciutto e compatto. Entrambe domineranno la scena fino allo scattare del terzo millennio quando i «grattanuvole» ricominciano a salire acquisendo un carattere internazionale sia nelle firme dei loro architetti sia nell'aspetto.
Sono arrivati il Palazzo della Regione Lombardia e il Diamantone di Lee Polisano, che trae personalità non da quel centimetro di più o di meno verso nembi e cirri, ma dall'essere uno «spettacolo» di vetri e di riflessi luminosi che incutono una dimensione di gigantismo ancestrale. In fondo fin dal suo esordio in terra americana che cos'è un grattacielo se non la mutazione di un antico totem indiano?
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