Di travestimenti ne ha fatti tanti a partire da quello memorabile di Johnny Groove, l'assiduo frequentatore di discoteche con pantaloni zebrati e sguardo non esattamente da Nobel della fisica. Poi si è fatto parodia vivente («parodia, non imitazione», precisa) di Maurizio Corona, Marco Mengoni, Fedez, Jovanotti e Gianluca Vacchi, il milionario nullafacente appassionato di social network e di balletti a bordo piscina. Ora è venuto il tempo, per Giovanni Vernia, di far vedere cosa c'è sotto quei travestimenti. Il comico genovese, che ama definirsi «famoso per caso», lo fa con lo spettacolo Sotto il vestito: Vernia, in scena oggi in data unica al Manzoni. Lo show, partito a ottobre, approda finalmente a Milano, la città dove Vernia ha cambiato la sua vita passando dalla condizione di solido ingegnere impiegato in una multinazionale americana a comico saltato in poco tempo dai piccoli palcoscenici delle pizzerie in zona Famagosta o Parco di Trenno a quello supermediatico di Zelig. «Nello spettacolo spiega l'attore racconto come sono arrivato fin qui. Cerco di spiegare questa strana vita da film di cui è protagonista una persona assolutamente normale come me, catapultata nella celebrità senza nemmeno fare tanta gavetta. Anche se la vocazione a imitare e far ridere parte da molto lontano: da bambino imitavo i parenti, quelli di papà erano pugliesi e quelli di mamma siciliani: potevo sbizzarrirmi tra tic e modi di parlare. Qualcuno, però, se ne aveva a male e a Natale capitava che poi non chiamasse per gli auguri. Mio padre, maresciallo della Guardia di Finanza severo e austero, non la prendeva sempre bene. Volle a tutti i costi che facessi qualcosa di serio, mi sostenne negli studi e fu orgoglioso quando divenni ingegnere. Vivevamo a Genova, poi il lavoro mi portò a Milano. Qui vennero impieghi importanti, lavori sicuri e assolutamente normali, se così si possono definire. Io però, senza dire niente a casa, già cominciavo a esibirmi nei locali. Mio padre scoprì dalla tv che facevo il comico, sulle prime si infuriò, poi capì. La passione per le imitazioni finì per crearmi qualche problema sul lavoro: prendevo in giro i capi, e non tutti avevano senso dell'umorismo. Anche perché poi ho sempre seguito una ricetta che è quella che uso oggi: scegliere personaggi con un tallone d'Achille, o comunque un'incoerenza».
Ecco perché il Fedez di Giovanni Vernia è il rapper tutto tatuato, che si atteggia a duro dei quartieri bassi, e poi canta canzoncine d'amore, o il santino laico Pif è l'anima bella del sociale e dell'antimafia che però mette la faccia negli spot più smaccatamente commerciali.
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