Luca Fazzo
L'annuncio della morte di Antonio Braggion si spande ieri, nel tam tam di quella comunità sparsa ma coesa che sono i «neri» milanesi: non le teste rasate di oggi, ma i sopravvissuti dei Ray Ban e di piazza San Babila, delle scarpe Barrows e della sede missina di via Mancini. Gente che per dieci anni, tra i Settanta e l'inizio degli Ottanta, in città combatteva una battaglia impari contro l'esercito strapotente dell'ultrasinistra. Anni di odio, di violenza, di morti. A Braggion toccò diventare suo malgrado protagonista dell'episodio più simbolico di quello scontro frontale. E la sua morte, a più di quarant'anni di distanza, chiude in qualche modo una pagina terribile della storia di Milano.
Braggion, giovane militante di Avanguardia Nazionale, aveva fatto la scelta di altri neofascisti: si era procurato un «ferro», una pistola. Per attaccare o per difendersi, sarebbe questione lunga e inutile. Di certo è che alle cinque di pomeriggio del 16 aprile 1975, in piazza Cavour, Braggion sfodera l'arma dal borsello per salvarsi la vita: per non fare la fine di Sergio Ramelli, il ragazzino del Fronte della Gioventù che il mese prima è stato spedito in coma a sprangate da un commando di Avanguardia Operaia e che morirà dopo una lunga agonia.
Anche Braggion, in piazza Cavour, si ritrova circondato. Sono militanti del Movimento Studentesco che tornano da un corteo, e che intercettano i fascisti che stanno volantinando. I capi del «servizio d'ordine» dell'ultrasinistra ordinano l'attacco. Saltano fuori chiavi inglesi, spranghe, bulloni. A quel punto Braggion recupera dalla Mini la pistola e spara. Uccide Claudio Varalli, studente della scuola che oggi porta il suo nome: anche Varalli ha diciassette anni, la stessa età di Ramelli, il ragazzo del Fronte che in quelle ore lotta invano contro la morte in una stanza di ospedale.
Quel che accade dopo è noto: sui giornali e nei volantini, l'uccisione di Varalli viene raccontata come l'agguato a sangue freddo di una squadraccia fascista e la città rossa insorge. Il giorno dopo, decine di migliaia di estremisti in assetto da guerriglia danno l'assalto alla sede del Movimento Sociale in via Mancini e alla caserma dell'Arma di via Galvano Fiamma. Mai si era vista prima, né si vide dopo, una simile massa d'urto abbattersi sulle forze dell'ordine. Sotto la pioggia delle molotov, carabinieri e polizia arretrano. In corso di Porta Vittoria un camion dei carabinieri investe e uccide Giannino Zibecchi, militante del Comitato antifascista del Ticinese.
Muore Varalli, muore Zibecchi. Braggion salva la pelle. Ma quei due giorni di fuoco lo segneranno per sempre e in profondità. Per molti milanesi era un fascista assassino, il bersaglio additato a ogni possibile ritorsione. E fa una certa impressione vedere oggi le foto dei due processi che dai fatti di piazza Cavour scaturirono. I protagonisti dell'assalto, i ragazzi del Movimento Studentesco - e tra loro si riconosce un imberbe Stefano Boeri - se ne stanno a viso aperto e quasi sorridenti sulle panche degli imputati, con le loro facce da Milano bene. Antonio Braggion è da solo, in gabbia, con il fazzoletto a coprirgli la faccia, per evitare che il suo volto venga ritratto e affisso per le strade sui manifesti «Wanted».
Alla fine sia lui che i «rossi» uscirono dai processi indenni, tra amnistie e prescrizioni. I ragazzotti dell'Ms abbandonarono presto i sogni di rivoluzione e si avviarono alle carriere borghesi che li attendevano; il capo del loro servizio d'ordine divenne un dirigente socialista. Braggion si laureò a fatica in legge, poi si ammalò, in qualche modo si rimise. Quando aveva ventidue anni uccise un ragazzo che di anni ne aveva diciassette.
E per questo non c'era senso, né rimedio. In questi anni ha fatto l'avvocato. Non ha voluto diventare un simbolo, non è apparso, non ha voluto fare interviste. Nemmeno per dire la cosa più ovvia: che di quegli anni non c'è niente da rimpiangere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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