Il patto spezzato con lo Stato del Borghese piccolo piccolo

Dapporto mette in scena la tragedia dell'uomo tradito dalle istituzioni già resa immortale da Alberto Sordi

Il patto spezzato con lo Stato del Borghese piccolo piccolo

L'uomo, la società, lo Stato: ritratti in un'epoca in cui il patto che li teneva insieme si sgretolò irreparabilmente. Era il 1976 quando Vincenzo Cerami mise nero su bianco la tragedia di Un borghese piccolo piccolo, il travet ministeriale Giovanni Vivaldi alle prese con il crollo delle sue certezze. L'anno dopo, Mario Monicelli portò il libro di Cerami sullo schermo e Vivaldi non poteva avere altro volto che quello di Alberto Sordi, la maschera per eccellenza dell'italiano succube e conformista. Nella ribellione finale di Vivaldi-Sordi all'ingiustizia e alla solitudine era difficile non leggere la parafrasi dell'angoscia di una categoria sociale: l'Italia della maggioranza silenziosa, del ceto medio perbene e bigotto, abbandonati dai valori che credevano immortali e invece repentinamente dissolti.

Ora il Borghese piccolo piccolo torna in scena su un palco di teatro: dal 9 al 20 gennaio al «Franco Parenti». A dare voce e volto a Giovanni Vivaldi è Massimo Dapporto. La sfida non è il confronto con Sordi ma con l'attualità di oggi, con un'Italia profondamente diversa da quella in cui Cerami scrisse il suo libro. Ma attraversata da angosce che sono in fondo le stesse: moltiplicate però per cento, per mille. Se il Vassalli di Sordi si ritrovava improvvisamente orfano di uno Stato-padre e delle sue attenzioni, il Vassalli di Dapporto va in scena in un'Italia abituata ormai a vivere lo Stato come nemico e la solitudine come condizione normale dell'esistenza.

Il finale è noto: la tragedia che irrompe nella vita di compromessi e di ambizioni meschine di Giovanni, la morte di un figlio per mano di un rapinatore che esplode nelle quattro pareti del suo universo. L'impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi sceglie di farsi giustizia da sé: non diversamente, a ben guardare, da come lo aveva fatto, appena quattro anni prima del libro di Cerami, un altro travet frustrato, cantato nel 1973 nella Storia di un impiegato di Fabrizio De Andrè. Il bombarolo di De Andrè prende di mira il Parlamento. E fallisce. Più direttamente, l'impiegato di Cerami prende di mira l'assassino di suo figlio, e riesce nell'impresa. Ma la reazione è la medesima, medesima l'estrazione sociale, identici gli effetti deflagranti del crollo di ogni illusione.

Messo di fronte alla peggiore tragedia che possa toccare a un genitore, Vivaldi tocca con mano l'inadeguatezza dello Stato a mantenere le sue promesse: l'ordine, la giustizia, la punizione dei colpevoli. Non aspetta neanche la fine delle indagini, perché percepisce chiaramente che il patto che lo ha legato fino a quel giorno allo Stato - la rinuncia a pensare in cambio della protezione - era un patto fittizio, uno scambio a senso unico. Lo Stato non si preoccupa di proteggere il suo servo Giovanni: si preoccupa di se stesso, pratica il proprio diritto a marcire tra massonerie e corruzioni. E il travet si ribella.

Oggi del diritto di farsi giustizia da soli si parla apertamente, tra legittime difese e timori di Far West. A quarant'anni dal suo esordio, l'impiegato Giovanni Vivaldi si riprende la primogenitura dell'idea.

«Un borghese piccolo

piccolo», adattamento e regia di Fabrizio Coniglio con Massimo Dapporto, musiche originali di Nicola Piovani. Dal 9 al 20 gennaio al Teatro Franco Parenti. Biglietti da 30 a 38 euro, 02/59995206 o www.teatrofrancoparenti.it

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