«Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri». Così scriveva il giudice Borsellino nella sua «agenda rossa» e proprio quel pensiero, macerato nel crepuscolo di un'esistenza di uomo e magistrato in lotta impari contro un nemico oscuro, rappresenta il nucleo dello spettacolo ideato e interpretato dal regista-scrittore Ruggero Cappuccio. Paolo Borsellino Essendo Stato è il titolo emblematico dello spettacolo che va in scena da stasera al Franco Parenti nell'ambito della rassegna Teatro civile e altri eventi legati al '68. Quella sua frase, tristemente profetica, potrebbe rievocarne un'altra partorita da William Shakespeare, autore particolarmente caro al regista napoletano: «I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l'uomo di coraggio non assapora la morte che una sola volta».
Perchè proprio Borsellino, un quarto di secolo dopo la sua morte?
«Premetto che lo spettacolo nasce da un testo che scrissi nel 2003 dopo che, previa autorizzazione della vedova, trasformai il diario immaginario del magistrato in una partitura teatrale. Quel lavoro, che andò in scena in molti teatri italiani tra cui il Piccolo di Milano, è stato trasformato e arricchito non appena ebbi accesso alle audizioni di Borsellino e Falcone al Csm datate 31 luglio 1988. I due magistrati, che avevano subito un provvedimento disciplinare per le loro accuse allo Stato, raccontarono in quella sede le loro ragioni e i loro fondati timori».
Lo spettacolo è un viaggio nell'animo tormentato di un uomo che si interroga appunto sul senso dello Stato, nell'interregno tra la strage di Capaci e la sua fine già scritta. Che cosa può aggiungere il «teatro civile» alla cronaca e alla storia?
«Parlare di teatro civile può essere riduttivo rispetto al significato che solo l'arte riesce dare ai grandi dilemmi dell'esistenza umana. In questo, Shakespeare è stato sovrano assoluto a cominciare dalla rappresentazione della sfida al potere, un dramma universale. Il teatro poi, con il suo linguaggio vivo e diretto, ha una forza che nessun media possiede».
Da Pirandello a Sciascia, la mafia è un tema che affascina da sempre teatro e letteratura. Quali riflessioni aggiunge lo spettacolo di Cappuccio?
«A mio avviso questo testo approfondisce due aspetti. Il primo è, mi si passi il termine, psicoanalitico: Falcone e Borsellino erano due palermitani nati e cresciuti in quartieri popolari e masticavano molto bene il linguaggio dei loro antagonisti, basti pensare che molti interrogatori si svolgevano in dialetto siciliano. La loro arma in più era, proprio come avviene in teatro, quella di lavorare sui sottotesti. Il secondo aspetto è forse più metafisico e si lega al titolo Essendo Stato: il protagonista sta parlando da morto quando è ancora vivo oppure parla da vivo quando è già morto?».
Il teatro civile può aiutare a riscrivere la storia?
«Non lo so, ma di certo può aiutare a non chiudere gli occhi, e ciò è prezioso in un Paese tristemente avvezzo a passare dai porti delle nebbie e dalla macchina del fango all'ideologia del martirio. In questi anni ho potuto constatare, con soddisfazione, come quest'opera abbia incontrato l'interesse di tanti giovani che ignoravano le verità dichiarate di un grande servitore dello Stato come Paolo Borsellino».
Ruggero Cappuccio è anche il direttore del Napoli Teatro Festival, una rassegna prestigiosa che si inaugura l'8 giugno e dura per oltre un mese. Quest'anno coinvolge anche Milano...
«Sì, abbiamo in cartellone anche produzioni del Franco Parenti, dell'Elfo Puccini e del Filodrammatici.
Del resto, Napoli e Milano sono due piazze teatrali che hanno forti analogie riguardo all'attivismo delle sale e delle produzioni. Penso però che entrambe potrebbero imparare l'una dall'altra. Napoli certamente nel metodo e nell'efficienza, Milano invece in quel pizzico di anarchismo che è pur sempre il sale dell'arte...».
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