Avrebbe mai immaginato di vivere così a lungo, professore?
«Francamente no. Il fatto di esserci arrivato in buona salute mi fa piacere, ma tutti questi anni pesano un po'».
Fontana, Capogrossi, Dorazio, Scialoja, Scanavino, questi quadri sono una bella collezione di ricordi oltre che un pezzo di storia dell'arte. Ha nostalgia di qualcuno di loro?
«Erano tutti amici o artisti con cui ho condiviso un pezzetto di strada. Con me sono stati generosi, perché non avrei mai potuto acquistare opere di questo valore. Per quanto riguarda i rimpianti, mi mancano solo coloro con cui c'era affetto sincero; mi riferisco a Bruno Munari o a Lucio Fontana».
La sua biografia sembra raccontare dieci vite anziché una. Se riavvolgesse il film di questi 104 anni rifarebbe tutto?
«Assolutamente sì. So che il mio eclettismo è stato anche criticato, ad esempio per il fatto di essere artista e nello stesso tempo critico d'arte. Hanno ragione a criticarmi, ma confesso che mi sarebbe dispiaciuto troppo rinunciare a una sola delle mie vocazioni. Anzi, ce n'è una che reclama...».
Vale a dire?
«Avrei voluto diventare anche architetto. Del resto la mia grande passione è sempre stata l'arte moderna, e l'architettura ne è una grande espressione. Diciamo che ho dovuto accontentarmi di insegnare Estetica e dedicarmi ad un'attività culturale e pittorica. Se tornassi indietro, chissà...».
A proposito di architettura, l'Expo è alle porte. Per Milano una grande occasione - anche estetica - oppure un'occasione mancata?...
«L'Expo è un evento positivo perché finalmente ha smosso le acque in una città rimasta troppo a lungo seduta nel campo dell'architettura. Finalmente Milano avrà una vera city come tutte le grandi metropoli internazionali, mi riferisco all'area delle ex Varesine. Mi piace molto meno quello che hanno combinato nell'area dell'ex fiera...».
Beh, lì c'è di mezzo l'archistar Daniel Libeskind, non la convince?
«Libeskind è un grande architetto, ma l'esterofilia a volte è dannosa, soprattutto per una città che ha sempre vantato architetti d'avanguardia, sottovalutandoli. A parte casi come quelli di Gio Ponti, Franco Albini o Studio Bpr, Milano non è stata capace di sfruttare talenti che all'estero ci invidiavano. E il risultato è che, se ci guardiamo in giro, i grandi esempi di architettura moderna si contano su una mano...».
Non teme che l'area di Expo, dopo il 2015, diventi l'ennesima cattedrale nel deserto?
«Molto dipende da quale sarà il piano urbanistico, un punto dolente per questa città. Devo dire che anche nell'area di Porta Nuova è mancato finora un vero piano urbanistico; belli gli edifici, ma scarsa la viabilità. Per non parlare del verde, che i cittadini gradirebbero fosse orizzontale più che... verticale».
Tutte le amministrazioni, del resto, piangono per le casse vuote. C'è la crisi, che ne pensa?
«Penso che in fondo sia una baggianata. Tutte le epoche hanno avuto le loro crisi; ma le crisi sono sempre utili perché spingono a cambiare certe consuetudini. E questa civiltà ha bisogno di cambiare».
Già, nei suoi libri «Horror pleni, la (in)civiltà del rumore» e «Irritazioni, un'analisi del costume contemporaneo» accusa i difetti di una società bulimica...
«Sì, perché nella nostra civiltà c'è un eccesso di tutto: troppe informazioni, troppe immagini, troppi rumori, troppi libri, troppo consumismo. Tutto questo alla fine uccide la bellezza. Per sconfiggere l'horror pleni, servirebbe una bella pausa».
Una civiltà anche afflitta dal cattivo gusto; fu lei a introdurre la parola «kitsch»: oggi l'Italia ne è un modello?
«Forse stupirò qualcuno ma, nonostante tutto, non penso che l'Italia sia così male come siamo abituati a dire. Avendo avuto la fortuna di viaggiare molto in Europa e nelle Americhe, ho constatato che esistono Paesi che hanno molti più difetti di noi. Essere l'Olanda o la Norvegia, così piccoli e ricchi, è facile...».
Noi, invece, oggi siamo popolati dagli immigrati e molti gridano all'emergenza...
«Anche su questo tema vedo molto populismo. La storia ci insegna che le mescolanze sono sempre un fatto positivo purché, chiaramente, si creino le condizioni per una vera integrazione».
Di Milano cosa pensa davvero, lei che è un triestino cittadino del mondo?
«Sarò sincero, più di Milano adoro altre città come Torino e Roma, oppure la Toscana dove mi rifugio volentieri avendo una piccola casa nel Volterrano. Però non lascerei mai Milano che reputo la città italiana più viva culturalmente e con la società più democratica».
È vero che è stato insignito dell'Ambrogino d'oro ma non l'ha mai ritirato?
«È vero».
Perché?
«Perché tutti questi premi, queste targhe, sono completamente inutili e finiscono giustamente in cantina. Mai che abbia ricevuto, chessò, un bel premio in denaro che certo mi avrebbe fatto più comodo. Oppure, tutt'al più, delle bottiglie di buon vino... Lo sa qual è il premio che ricordo con più piacere?».
Quale?
«Il premio Masi ricevuto a San Giorgio di Valpolicella come miglior veneto del 2005: una botticella di squisito Amarone...».
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