Tra due mesi, il giorno della Befana, compirà ottant'anni: in pieno segno del Capricorno, come il suo concittadino Vittorio Alfieri («caratteraccio, ma simpaticissimo»). Quelli di Paolo Conte sono ottant'anni ben portati: ma sempre ottanta sono. E così questa volta il Maestro non accompagna la sua visita a Milano, per i due concerti di oggi e domani agli Arcimboldi, punto di partenza di un lungo tour, con la consueta corvè di interviste. Comprensibile, ma è un peccato. Perché tra le tante domande di routine, ce n'era una resa inevitabile dagli eventi: Maestro, detto tra noi, cosa c'è di così intollerabile nella modernità?
La domanda andava fatta: perché da poche settimane è uscito il suo nuovo disco, ed è un disco senza parole. Musica, solo musica. Alcuni brani incantabili, quasi dodecafonici. Ma in altri si sente incombere la voce - roca, da crooner - di Conte, che a ogni quattro battute sembra lì lì per fare irruzione. E invece la musica scivola via, senza offrire nient'altro che note. Perché le note sono infinite, e le parole - ci dice questo disco - invece no. Perché una volta cantati tutti i suo Mocambo e le sue giarrettiere rosa, i suoi Bartali e i suoi tinelli marron, le donne di nome Marisa e i baristi di nome Angiolino, i pugili suonati e i pittori della domenica, tutti gli Harry's Bar e tutte le Zanzibar, cos'altro restava a Paolo Conte da cantare? Sulle nostre strade non sfrecciano più Topolino amaranto ma monovolumi grigie tutte uguali.
La modernità non è poetica, avrebbe forse risposto il Maestro. O forse invece di poesia, che è una parola pericolosa, avrebbe impiegato qualche altro vocabolo, uno dei suoi, cavati a sorpresa da quelle sue letture da intellettuale di provincia, tra Piero Chiara e Kavafis. O forse avrebbe detto solo che la modernità è troppo volgare perché valga la pena di cantarci su. Così meglio rifugiarsi nelle note, che volgari non sono (quasi) mai, tra i ideci musicisti che stasera saranno sul palco con lui.
D'altronde il Maestro dice che tutto per lui nasce dalla musica, che prende forma, al piano, di notte: che le parole vengono dopo, un po' da sole, facilmente, e un po' con sforzo; e che lui si considera comunque assai più musicista che paroliere; e infatti i francesi, che lo amano ma non capiscono le sue parole, lo chiamano le jazzman extravagant.
Ma qui, in Italia, il pubblico le sue parole le capisce, le conosce a memoria, le ama: e anche stasera faticherà a credere quando arriva l'ultima donna, grassa e non bella, e si sganascia «su questa vita bagascia, su questa vita che va», che tutta questa poesia sia lì solo per fare compagnia alle note.
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