Mille e una ragione per andare a vedere «The hurt locker»

Caro Granzotto, mi risulta che quello cinematografico non sia un argomento fra i suoi preferiti, ma vorrei comunque porle una domanda sul film vincitore dell’Oscar, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Non so se lei lo abbia visto, ma a me è piaciuto, denso e serrato getta una luce su una attività rischiosa delle truppe in Irak e cioè il disinnesco di bombe, autobombe e altri e ordigni esplosivi che mietono vittime soprattutto fra la popolazione civile. Quello che mi ha sorpreso e del quale stento a farmene una ragione è l’alzata di scudi della critica «militante» (quasi tutta) che ha bocciato il film in quanto diseducativo e «bushiano» se non «reaganiano», poco in sintonia con l’umore dell’America e del suo presidente Nobel per la pace. Ma la guerra in Irak c’è stata o non c’è stata? Mostrarne certi aspetti poco conosciuti è forse reato politicamente scorretto?
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Non sono un cinefilo né, tanto meno, un esperto di cinema, caro De Bartolomei. So solo distinguere, e ci vuol davvero poco, i film che possono piacermi e quelli che invece no. Per escludere i secondi a volte mi basta il titolo. A volte il nome del regista. Sempre, comunque, la trama: se il protagonista è un intellettuale in depressione, una donna «che si mette in gioco» o che ripercorre il suo «vissuto», un precario che filosofeggia o una single (vulgo, zitella) in crisi ideologica, appena m’imbatto in un film di «denuncia civile» o che affronta il «malessere giovanile», fuggo. Forse è per questo che vedo così pochi film italiani. Per quelli della prima categoria m’affido, per lo più, al mio critico di riferimento, Mariarosa Mancuso. La quale, anche se molto mi addolorò scrivendo «nativo americano» in luogo di «pellerossa» - però l’ho già bella che perdonata - coi miei gusti ci azzecca sempre. Lei m’indusse a vedere The Hurt Locker e non mi diede buca perché il film mi piacque assai. Andai in sollucchero, poi, per i cinque minuti finali. Saranno trent’anni che ce la menano col soldato che una volta tornato a casa si macera nei sensi di colpa, si droga per dimenticare, diventa pazzo e fa una strage, ha gli incubi, s’attacca alla bottiglia, piagnucola, mena moglie e figli e si proclama disadattato. Il soldato di The Hurt Locker torna sì a casa, però non solo non dà di matto, ma dopo un po’ sceglie di ripartire per il fronte, felice e contento di essere bravo nel suo lavoro. «Hanno bisogno di artificieri, laggiù», dice alla moglie. Costei ci resta male, le spunta una lacrima, ma non pianta una scena isterica, non fa fagotto per tornarsene da mammà. E così, il soldato, lo ritroviamo in una via di Bagdad che s’appresta a disinnescare un ordigno.
È questo finale che ha mandato fuor dai gangheri la critica impegnata, caro De Bartolomei. Anche il film nel suo insieme, naturalmente, perché, dicono, in quanto bandita dalla società civile con ville negli Hamptons la guerra non dovrebbe essere più rappresentata al cinema. Non è educativo (sgozzamenti, stupri, cervelli che si spappolano, tutto il repertorio «splatter», quello sì che è educativo). The Hurt Locker, poi, è doppiamente diseducativo perché diretto da una donna.

E nell’immaginario politicamente e bischeramente corretto le donne devono sempre atteggiarsi a madonne del pacifismo (pena l’essere definite, come qualcuno ha qualificato Kathryn Bigelow, un travestito). Mille e una ragione, insomma, per andarselo a vedere.

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