Mosè indossava un calzare di giunco marino. Gesù si accontentava della solea, una specie di zoccolo. Gaio Cesare Germanico prese il nome Caligola dalle calighe dei soldati romani, con suola di cuoio, chiodi di ferro e stringhe per legarle alla tibia. L’imperatore Eliogabalo pretendeva che al suo passaggio i servi gli spargessero polvere d’oro sotto i piedi. I pontefici indossavano tutto l’anno, tranne il venerdì santo, calze di seta rossa che ricevevano soltanto tre giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro e le loro scarpe, dette mule, avevano lo stesso colore vermiglio, che s’è conservato fino ai nostri giorni per ricordare il sangue versato nel martirio dal primo successore di Cristo.
Sic transit gloria mundi. Per capire come passa, e passeggia, la gloria del mondo, bisogna rivolgersi a Mario Bertulli, il calzolaio bresciano che fa diventare i Grandi della Terra ancora più grandi, innalzandoli di 6, 8, 10, anche 12 centimetri, la misura dei tacchi a spillo, ma all’occorrenza elevandoli fino ai vertiginosi 15 centimetri sfoggiati dalle pin-up, grazie a un suo brevetto che lascia inalterato l’aspetto esterno della scarpa. La confidenza col potere è un patrimonio di famiglia. Suo padre Domenico cucì gli ultimi stivali di Benito Mussolini, quelli che la salma del Duce indossava quando fu appesa per i piedi al longherone del distributore di benzina in piazzale Loreto. «Un giorno d’autunno del ’43 venne a casa nostra la polizia della Rsi. Papà fu condotto a Gargnano, dove passò l’intera mattinata col capo del fascismo, donna Rachele e i figli. Ci raccontava che Mussolini indossava una giacca da camera color bordeaux con una “M” ricamata sul taschino, i pantaloni della divisa e le ciabatte. Mio padre gli prese la misura del piede: un 41. Compatibile con la statura: un metro e 66. Dopo 15 giorni, tornò sul lago di Garda per far provare gli stivali al Duce, che ne fu entusiasta: “Perfetti!”».
Bertulli junior ha quasi 72 anni e da 55, dopo aver piantato a metà gli studi di ragioneria, mantiene viva la fama del genitore. Ha servito Benedetto XVI. Ha fatto in modo che il presidente francese Nicolas Sarkozy non si sentisse a disagio accanto alle slanciatissime consorti Cécilia Ciganer-Albéniz e Carla Bruni. Ha risollevato il morale dei primi ministri spagnoli José Maria Aznar, taglia 42, e Felipe González. Ha regalato una spanna in più a Tom Cruise, così come un tempo assicurava maggiore visibilità a Renato Rascel. Ha fallito solo una volta, ma va scusato: c’era di mezzo Sua Altezza, mentre lui è uno specialista in piccolezza. Accadde nel 2007. «Inviai alla Zarzuela, la residenza dei sovrani di Spagna, un modello derby per re Juan Carlos, con lo stemma dei Borbone stampato a colori sulla pelle bianca della fodera e dei sottopiedi. Purtroppo feci un 45 invece di un 43...». Poco male: il 45 se lo prese l’erede al trono Felipe e Bertulli si riscattò nel giro di 48 ore con la numerazione adatta all’augusto padre.
Due giorni è il tempo che ci vuole per un paio di scarpe interamente fatto a mano, «ammesso che la mano non ti tradisca, guardi qua che roba», mostra le dita deformate dall’artrite reumatoide. Ormai riesce a tagliare solo qualche tomaia. Fortunatamente è stato così previdente da trasmettere il suo talento a sette artigiani che lavorano per lui, «tutti italiani», specifica orgoglioso, ma sarebbe più corretto dire padani, anzi serenissimi, perché Bertulli, che ha il suo quartier generale - villetta a due piani senza pretese, uffici sotto, abitazione sopra, galline che razzolano in cortile - a Caionvico, periferia di Brescia, sulla strada che conduce alle cave di marmo di Botticino, dirimpetto al monte Maddalena, è un caparbio localista che ha sempre votato Lega, «a parte qualche infatuazione passeggera».
Così, quando il calzolaio dei Grandi s’è trovato a fare i conti con questa crisi economica che non guarda in faccia a nessuno, ha pensato bene di puntare ancora di più sul suo attaccamento al territorio. «Un amico sfegatato mi aveva portato al raduno di Pontida. Lì compresi quanto fosse radicato lo spirito identitario del Carroccio». Ne è nata una scarpa sportiva («bio, si dice adesso») di color panna, fatta solo con pellami veneti, ça va sans dire, «vitelli allevati nel Padovano e conciati a Chiampo». Ha la rosa celtica verde, detta anche Sole delle Alpi, ricamata sui fianchi e il vessillo rosso col Leone di San Marco dorato cucito sulla linguetta. Il primo paio è stato consegnato a Umberto Bossi, il secondo a Roberto Calderoli, che ha ringraziato commosso su carta intestata del ministero, il terzo a Luca Zaia. Altri destinatari del prototipo, gli irriducibili Flavio Tosi, Gianfranco Gentilini e Gian Paolo Gobbo. Non c’è da stupirsi che in questi giorni la Lega Nord abbia firmato il contratto per la distribuzione in esclusiva del modello unisex, numeri dal 36 al 45 e prezzo politico intorno ai 100 euro.
Bertulli produce solo su ordinazione e vende solo per corrispondenza, e nonostante le frequentazioni ruspanti è rimasto l’uomo di cultura che fa incidere per i clienti Cd del Concerto in la maggiore di Pietro Antonio Locatelli (1695-1764) e il raffinato bibliofilo che ha pubblicato a sue spese L’arte del calzolaio di Domenico Corazzina (1882). Adesso si accinge a far stampare in edizione anastatica anche il Calceus antiquus et mysticus, et de caliga veterum di Benoît Balduin e Julius Nigronus.
Che c’è di tanto interessante in un libro edito nel 1711 a Leida, nei Paesi Bassi?
«Qualcosa di criptato, mi ha detto la professoressa Chiara Frugoni, figlia del grande medievalista Arsenio Frugoni. Benedetto Balduino era un ex calzolaio di Amiens che ottenne la cattedra di teologia, Giulio Negrone un filosofo gesuita. Perché due uomini di Dio si saranno occupati di scarpe ai tempi dell’Inquisizione?».
Forse per lo stesso motivo per cui Jacques Pantaléon, che da giovane aveva lavorato nella bottega del padre ciabattino, divenne papa nel 1261 col nome di Urbano IV.
«Il Corazzina definì l’opera “un tesoro di scienza e anche un monumento di bizzarrie”. Io mi sono ispirato a un disegno contenuto nel libro per rifare il calceus di Silvestro I, il pontefice al quale l’imperatore Costantino baciò i piedi nel 316. È una pantofola che sulla tomaia reca ricamati in filo d’oro parecchi esemplari del Nodo di Salomone, simbolismo fra i più antichi. L’ho riprodotta sia in vitello, rossa, che in capra del deserto dell’Oman, bianca, per farne dono a Benedetto XVI».
Che ha di speciale la capra dell’Oman?
«La morbidezza. Ogni cosa che proviene dall’Oman è speciale. Io mi faccio mandare da là anche la mirra. E l’incenso: lo regalo ai francescani del convento di Rezzato, così durante le funzioni liturgiche usano quello. Non sopporto gli incensi industriali, mi irritano la gola».
Che numero porta Sua Santità?
«Il 42. Benché fosse bresciano come me, Paolo VI era inavvicinabile. Invece il tedesco Ratzinger è molto alla mano. Nel giro di una settimana mi aveva già risposto per ringraziarmi».
Dicono che anche Silvio Berlusconi sia suo cliente.
«Non mi risulta».
Era sui giornali.
«Un incidente di percorso. Il nostro esclusivista per la Spagna, Andres Ferreras, ha parlato con un giornalista di Siviglia e la notizia ha fatto il giro del mondo, è uscita persino sulla Pravda. È vero che ogni tanto da Mediaset mi ordinano scarpe particolari per qualche trasmissione televisiva. Ma chi sia poi a indossarle, lo ignoro».
In che modo riesce ad accrescere la statura? Lavora sui tacchi?
«Manco per sogno. Non siamo nel 1600, quando il calzolaio del re di Francia esibì a Luigi XIII, piuttosto basso, il primo paio di tacchi da uomo, subito vietati a tutta la corte per non far sfigurare il monarca. I miei tacchi restano quelli standard, 25 o 30 millimetri. Il rialzo è tutto interno, messo a punto dopo uno studio podologico accurato».
Ma così non si cammina male?
«E le donne con i tacchi da 12, allora? Questione di abitudine. Il bello è che i clienti, una volta indossate le mie scarpe, si percepiscono più alti esattamente del doppio. Fattore psicologico. Il rialzo è di 10 centimetri? Pensano che sia di 20. Gli cambio la vita».
Wanda Ferragamo mi ha raccontato che suo padre la ammonì col dito puntato: «Se un calzolaio venisse a chiedere la tua mano, ti caccerei di casa!». I ciabattini erano considerati i paria della società e per il dottor Fulvio Miletti, medico figlio di medico, sarebbe stato un disonore averne uno come genero. Lei ha avuto difficoltà a trovarsi moglie?
«No, ma solo perché allora pesavo 65 chili e assomigliavo a Robert Mitchum. Abbiamo avuto tre figlie. Due lavorano con me. E da tre anni sono bisnonno».
Adesso assomiglia a Giorgio Torelli.
«Me l’ha detto anche una signora di Cremona, che mi ha fermato per strada. È un grande complimento, le ho risposto, magari sapessi scrivere come Torelli».
Luigi Festa, l’artigiano che aveva la bottega nel palazzo dove abitavano i Ferragamo, faceva raddrizzare al piccolo Salvatore, 9 anni, i chiodi storti caduti sul pavimento. Alla prima risuolatura il bambino si ferì a una mano. «Mio Dio!», esclamò il maestro, «credevo che m’avessi tagliato la tomaia».
«Io ho cominciato con le pedule da montagna. Erano la specialità di mio padre. In Alto Adige me le chiedono ancora».
E perché non le produce?
«Non si trovano più i materiali adatti. Usavamo un pellame a doppia concia che veniva da Matelica, il paese di Enrico Mattei, e che le rendeva perfettamente anfibie. Chiusa la conceria, chiuso con le pedule».
Non s’è ancora stufato di fare scarpe?
«Vorrei imitare Maurice Arnoult, un mio collega di Parigi che ho conosciuto sette anni fa. Non so se lui abbia adottato me o se io abbia adottato lui. Ha la bottega a Belleville, il quartiere di Édith Piaf e di Daniel Pennac. Nel giugno 2008 ha festeggiato il secolo di vita e ancora lavora, ha persino quattro apprendiste».
Ma ha senso fare le scarpe a mano?
«È un gusto che sta venendo meno. Me le chiedono, ma non sanno cosa comprano. Pensi che a un cliente ho fatto la doppia cucitura a vista del guardolo, con l’ago ricurvo inventato da Charles Goodyear, quello degli pneumatici. Bellissima, écru. “Troppo chiara”, s’è lamentato. Ma è il colore naturale della canapa, ho obiettato. Niente, ha voluto che gli tingessi la cucitura col nero inferno. Ed è la stessa gente che poi paga di più per avere le cuciture a contrasto sulla selleria della Land Rover».
Non tutti possono essere storici della calzatura come lei.
«Ho collezionato 300 paia di tutte le epoche. Ho persino trovato le scarpe allungabili. Risalgono alla prima metà del Settecento. June Swann, un’ottantenne di Northampton considerata fra le studiose più insigni del ramo, non ha saputo precisarmi se sono olandesi o inglesi. Nello zoccolo di legno è inserito un binario d’ottone che consente di arretrare il tallone a mano a mano che il piede cresce. In pratica le portavano tutti i componenti della famiglia nelle diverse età».
Giulio Cesare che cosa calzava?
«I campagi per uso militare e i calcei, simili a stivaletti, per uso civile, come Augusto, il primo imperatore romano. Invece la truppa portava la crepida clavata, detta così perché faceva rumore durante la marcia. A Roma c’era un apposito fondo, il clavarium, per la distribuzione dei chiodi alla milizia».
Un po’ come a Prè di Ledro, il paese fra le province di Brescia e Trento che da novembre a febbraio non vede mai il sole, dove si forgiavano le brocche per gli scarponi dei soldati durante la Grande guerra.
«Le scarpe chiodate dei Romani furono riportate in auge da Napoleone, il quale abolì destra e sinistra a favore di una forma unica molto squadrata, adattabile a entrambi i piedi, intercambiabile, in modo da evitare sprechi».
Chi è stato il calzolaio più famoso della storia?
«Ha detto niente. Ma lo sa che la prima scarpa, un sandalo infradito degli Egizi, risale al 3200 avanti Cristo? Potrei risponderle il naturista svedese Carl von Linné, meglio noto come Linneo, padre della classificazione scientifica degli organismi viventi, che prima di iscriversi all’università di Uppsala fu apprendista ciabattino. In realtà fu un anonimo milanese, Anselmo Rocchetti. Nel 1804 studiò la conformazione dei piedi di Napoleone seguendolo per le strade al suo ingresso in città. Presentatosi a palazzo dopo qualche giorno, si fece annunciare come il calzolaio dell’imperatore ed esibì quale prova gli stivali da consegnargli. “Il mio calzolaio?”, si stupì Napoleone. “Non ne ho mai avuto uno. Ma d’ora in avanti lo sarete”. Anche Gioacchino Murat, pur convinto che nessuno al mondo poteva competere in bravura con i maîtres bottiers francesi, ordinò un paio di stivali a Rocchetti. Questi gli fece provare il sinistro. Calzava a pennello. “E il destro?”, chiese il generale. “Se lo faccia fare a Parigi”, rispose l’artigiano milanese».
Oggi restano pochi calzolai in circolazione.
«Per forza, le scarpe “made in China” mica si possono riparare. Lo sa che ci vogliono 500 anni per smaltirle? Dipendesse da me, metterei una tassa sulla gomma. Lei prenda invece un paio di vecchie calzature in cuoio e le sotterri in giardino. Dopo due anni sono sparite, il terreno se l’è mangiate. Un ottimo fertilizzante biologico».
Che cosa rappresentano le scarpe per l’uomo?
«L’abbiamo dimenticato. Il benessere totale del corpo. La postura dei piedi, unitamente all’occlusione dei denti, fa l’80 per cento della nostra salute».
E che cosa ci raccontano di colui che le calza?
«Molto. Rivelano il carattere. Il tipo collerico consuma le suole ai lati, perché cammina a scatti; il mansueto al centro, perché trascina i piedi».
Quante paia ne ha?
«Di mie? Sette o otto.
E loro si adattano a indossare calzature già usate?
«Certo! Vorrei ben vedere...».
(451. Continua)
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