Milano - Marco Paolini, perché ha scelto Il Sergente nella neve?
«Mario Rigoni Stern iniziò a tenere un diario mentre era rinchiuso in un campo di prigionia, ma anziché descrivere l’orrore che stava vivendo, raccontò quello che gli era accaduto un anno prima. Per lui, la ritirata di Russia fu peggiore del lager».
È stato questo lo spunto che ha spronato Paolini, il cantore delle grandi tragedie italiane dal Vajont a Ustica, a trarre uno spettacolo dal libro dello scrittore vicentino. Un’opera nata tre anni fa, che vedremo domani sera alle 21.30 in diretta su La7, senza interruzioni pubblicitarie. «Il sergente nella neve è un testo scritto “a caldo”, non critico o poetico, su un fatto straordinario e tragico della Seconda guerra mondiale, l’epopea dei soldati italiani chiusi sulla sacca del fiume Don, che volevano tornare a casa».
Lo reciterà nell’ex cava Arcari di Zovencedo, nelle viscere dei colli Berici: «Mi serviva un luogo che offrisse un impatto visivo potente, che fungesse da ponte tra le parole che uso e la storia che racconto. Da questa cava coperta si estraeva la pietra con cui il Palladio costruì le ville venete. È un luogo ostile, disumano, un labirinto grande quanto otto campi di calcio, in parte allagato. Il palco è adiacente all’imboccatura, metà poggia in terra e metà è sospeso sull’acqua. Non ha nulla in comune con la steppa russa, ma evoca la discesa agli inferi. Qualcosa di simile alla vicenda di quei soldati».
Che cosa l’ha colpita del libro di Rigoni Stern?
«L’assenza di speranza. Ammesso che un’esperienza come quella ti lasci vivo, qualcosa di te muore, giorno per giorno, assieme ai tuoi compagni di strada. Sono andato fino in Russia per provare a capire. Il percorso è lungo trecento chilometri, i soldati italiani lo affrontarono a piedi, già logori e sfiancati, con 40 gradi sotto zero».
Come sceglie i suoi soggetti?
«Sono loro che mi scelgono. In questo caso, conobbi Mario nel duemila, mi narrò quello che aveva vissuto e visto e qualcosa si mise in moto, dentro di me. Ho lavorato sulle sue parole e poi ho iniziato a muovermi con libertà, prendendo iniziative, inventando. “Guarda che noi non ridevamo così tanto”, mi disse Mario quando vide per la prima volta lo spettacolo. Ma il mio lavoro è costruire storie».
Sono passati dieci anni esatti da quando recitò in diretta su Raidue Vajont, performance che le fece vincere l’Oscar della Televisione...
«A quei tempi Raidue la dirigeva Carlo Freccero e mi offriva il massimo della libertà. Mi sono trovato bene anche su Raitre con Paolo Ruffini. Ma questi spazi in Rai non ci sono più. Invece La7 mi ha offerto la diretta, il modo migliore perché il teatro incontri la tv. Ed è stata determinante la collocazione nel palinsesto. I programmi di tutta la giornata, da Atlantide a Otto e mezzo di Ferrara, saranno dedicati allo spettacolo».
La tv si sta ripiegando su se stessa, anche i grandi successi cinematografici fanno flop. Quali speranze può avere la prosa?
«Il teatro gode di ottima salute, non ha bisogno di una “quota” in tv. È come lo sport, si adatta anche al piccolo schermo ma esisteva prima ed esisterà dopo. A me fa bene fare televisione perché ne faccio poca, non stravolge il mio mestiere e mi aiuta ad attirare l'attenzione del pubblico».
Di solito la guarda?
«Come tutti. Amo i programmi non autoreferenziali, che aprono finestre verso altro, come i documentari. Il problema è che la maggior parte delle trasmissioni sono quotidiane, ricalcano la routine dignitosa, ma a tratti noiosa, della nostra vita di tutti i giorni. E noi ci accontentiamo».
Molti personaggi televisivi vengono a «risciacquare i panni» in teatro...
«Lasciarglielo fare è l’unico modo di farli smettere, capiscono più in fretta che non sono capaci».
E dei personaggi dello spettacolo che fanno politica, come Beppe Grillo, che cosa pensa?
«Io e Grillo siamo molto diversi. Lui è immerso nel presente, sa tirare fuori dei testi dalle migliaia di notizie che le persone scrivono sul suo blog. Io piuttosto sono un vecchio inviato speciale a caccia di storie, anacronistico e lento. Ma anche lui fa cultura, e cioè non offre momenti di benessere prepagato ma stimola il pensiero. Dire che fa anti-politica è ridicolo. Non si può cambiare la situazione del nostro Paese mantenendo inalterato l’equilibrio delle parti».
Elei, Paolini,
quale messaggio vorrebbe trasmettere ai telespettatori con Il sergente?«Non indico le risposte a chi viene a vedere i miei spettacoli. Mi limito a porre delle domande. Per questo il mio è un teatro politico».
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